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8/10

The Hurt Locker regia di Kathryn Bigelow

Guerra
recensione di Maurizio Pessione

Iraq, nell’inferno iracheno la squadra speciale antimina americana ‘Bravo Company’ cerca di rimuovere le bombe sotterrate lungo le strade o nascoste addosso ai terroristi suicidi o alle persone costrette contro la loro volontà.  Il sergente James  ne ha assunto il comando e non è uomo da stare dietro le linee. A seconda dei punti di vista ha coraggio da vendere, un incosciente oppure un autolesionista al quale piace ‘giocare’ ad una sorta di perversa roulette russa. Il conto alla rovescia dei 365 giorni di servizio scandisce il corso del film. I suoi due compagni di squadra, dopo un’iniziale ammirazione, ritengono che il suo comportamento sia un rischio anche per la loro incolumità. A due giorni dal congedo rischiano la vita a causa della mancanza di qualsiasi prudenza da parte di James. Il quale  torna a casa ma si rende conto che la vita normale non fa più per lui e quindi chiede ed ottiene di tornare in azione.

 

Ha vinto l’Oscar per il miglior film ed è anche il primo che regala ad una donna la prestigiosa statuetta per la regia. Kathryn Bigelow, ex consorte di James Cameron, autore a sua volta di Avatar e gran favorito sino alla vigilia per la vittoria finale, ha vinto con quest’opera ben 6 Oscar contro 3. Una bella soddisfazione, qualcuno potrebbe dire, a maggior ragione se consumata proprio alla faccia dell’ex marito…

Al di là di queste comunque risibili considerazioni da gossip, The Hurt Locker, che tradotto suona, più o meno, come ‘Scatole del Dolore’, è un pugno in faccia, di una forza e durezza tali che sfido chiunque ad immaginare che possa essere stato pensato e diretto da una donna, se non fosse che Kathryn Bigelow è già nota per essere un ‘maschiaccio’ di talento, autrice di Point Break, Strange Days e persino un horror atipico ma che a suo tempo ha lasciato il segno come Il Buio si Avvicina.

Dov’è ambientata quest’ultima opera? Nell’inferno iracheno, dove gli americani, dopo aver fatto piazza pulita di Saddam ed i suoi complici, sono impantanati da tempo, senza una realistica via d’uscita, in una guerriglia di stampo terroristico, fisico e psicologico, che il film della Bigelow evidenzia nella sua drammaticità. Cosa sono queste ‘Scatole del Dolore’? Ordigni che i terroristi piazzano dentro le auto lasciate incustodite in mezzo alle piazze, addosso alle persone, nascoste sottoterra, senza farsi scrupolo di chi e quante saranno le vittime e che le forze d’ordine americane specializzate, con i loro artificieri super-attrezzati, super-coraggiosi, super-stressati cercano via via di disinnescare. Ingaggiando una sfida infinita contro i vari marchingegni che i loro antagonisti escogitano, sempre più sofisticati, per una lotta che sembra un’atroce partita a scacchi, della quale però sfugge sempre più il significato ed il fine.

Quello che colpisce di questo film, oltre alla tensione di alcune scene che è angosciante, è che sembra un videogame, uno di quegli sparatutto che tentiamo, spesso invano, di non dare in mano ai nostri figli, perché ritenuti dannosi e diseducativi. Ma qui si tratta della realtà, non di un gioco, per quanto perverso: sono soldati, uomini, che saltano per aria per un fatale errore o per una perversa strategia, nel tentativo di disinnescare questi ordigni, non residuati bellici quindi. Anzi, sono attirati spesso in agguati nei quali la guerra non si combatte più come un tempo, con armi e modi convenzionali, bensì contro un nemico invisibile, che combatte anche solo con in mano un cellulare qualsiasi per innescare l’esplosivo.

Gli autori hanno mostrato il film ad alcuni militari americani di stanza in Iraq ed essi hanno poi dichiarato che si riconoscono con ciò che mostra e racconta. Eppure in The Hurt Locker sembra che le ragioni di questa guerra assurda non esistano più, semmai ce ne sono state. Non sono state neppure prese in considerazione. E che tutto sia ridotto ad un assurdo gioco al massacro, scandito dal conto alla rovescia dei giorni mancanti al cambio della guardia. Con l’unico obiettivo, perciò, di tornare a casa e poter dire, a se stessi innanzitutto, di averla scampata, di avercela fatta insomma. Per quale ragione, per quale ideale, per quale logica, non è dato sapere. Così come appare un’amara contraddizione la ‘malattia’ che prende alcuni, come l’artificiere protagonista del film, scampato alla morte una prima volta, rischiando ben oltre il lecito, ma incapace di tornare alla normalità di una famiglia, un figlio piccolo, per l’insopportabile mancanza della ‘droga adrenalinica’ che gli consente di andare incontro al rischio fatale affrontando ogni giorno un ordigno diverso, più pericoloso del precedente, sul filo del rasoio, con un’altissima percentuale di probabilità di lasciarci la pelle. È un film che in certi momenti sembra un documentario, distaccato, asettico, una sorta di report sulle tecniche del terrorismo messe a confronto con la tecnologia, la professionalità, il fegato e la disperazione di chi è deputato a combatterle, comprenderne i meccanismi e renderle inefficaci.

In una scena emblematica si vede un soldato, appena tornato alla base dopo una di questi uscite, che per passare il tempo e rilassarsi, gioca ancora con la playstation a sparare ed annientare presunti avversari sullo schermo della TV. Non si capisce più quindi il confine fra fantasia, gioco, immaginazione e realtà. Chi sta dentro quello schermo e chi invece fuori.

The Hurt Locker racconta questo essere di continuo sul filo del rasoio, questo essere sempre e comunque al di sopra delle righe, ad un confine indefinibile fra la vita e la morte che spinge il protagonista ad affrontare il suo compito in dispregio di ogni razionale sicurezza e timore, come fosse conscio e legato ad un destino che, comunque vada, è già deciso per lui: Superman che ha sbagliato contesto, ha sbagliato film. Tanto meglio o tanto peggio se potrà tornare a casa, ma sarà solo per caso, non certo per sua scelta e volontà. Tutto ciò alla fine per porsi una domanda: ma anche ammesso ci fosse una ragione all’inizio, ora dov’è e qual’è? Perché non si vede un futuro, un senso logico che vada oltre una realtà di uomini alle prese con un ambiente totalmente ostile, senza appoggio alcuno da parte della popolazione locale, che quando va bene è indifferente, oppure è complice o semplicemente spettatrice, con tanto di telecamera, di un duello all’O.K. Corral i cui contorni sono sempre più sfumati. Che ci fanno lì quei soldati, oltreché abbruttirsi giorno per giorno ed uscirne comunque con le ossa rotte sotto tutti i punti di vista? Incapaci poi di riadattarsi, come avveniva ai tempi dei reduci del Vietnam, alla vita normale. Possibile che gli americani non abbiano tratto lezione alcuna da quella devastante esperienza?

Vedi The Hurt Locker, che parte con una lunga sequenza di rara emotività in un crescendo di tensione che è un po’ una sintesi di quello che succederà in seguito e ti poni inevitabilmente questi quesiti. Grande tecnica cinematografica al servizio di un’opera che scava un solco profondo fra le ragioni di una guerra e la loro trasfigurazione sul campo. Un film che a tratti è troppo vero per essere considerato solo un film e che lascia un vuoto grande come tutte le vite buttate in questo teatro dell’assurdo, dell’inumano, nel quale logica e ragione sono parole che hanno perso il loro significato.

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alexmn 8/10
drugo 7/10

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