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8/10

La Chiave Di Sara regia di GILLES PAQUET-BRENNER

Guerra
recensione di Alessio Colangelo

Julia, giornalista americana che vive in Francia da 20 anni, sta facendo un’inchiesta sui dolorosi fatti del Vélodrome d’Hiver, dove vennero rastrellati  migliaia di ebrei parigini prima della deportazione. Durante le ricerche si imbatte in Sara, una donna che aveva 10 anni nel luglio del 1942, che riporterà alla luce ricordi ormai dimenticati, ma che le sconvolgeranno la vita.     

LA ZONA GRIGIA

"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza"." Inf. XXVI  (vv.118-120)  

Quello che rende La chiave di Sara, del regista francese Gilles Paquet-Brenner, un film importante  è  senza alcun dubbio l’ interpretazione  di  Kirstin Scott Thomas e di Melusine Meyanceper per i rispettivi ruoli della giornalista Julia Jarmond e di Sara.La diegesi si articola su due momenti differenti: al giorno d’oggi e nel 1942;  il regista rende sottile lo scarto temporale anche grazie ad un sapiente montaggio alternato che, come una sinusoide termica, sposta il nostro logos da un’ epoca ad un'altra, con il risultato di tenere sempre alta la suspense e trasmettere una sensazione di tristezza durante tutto il film. Viene illuminata, con occhio onesto e senza mezzi termini, quella che viene definita “la zona grigia”, cioè  l’insieme delle persone, che più o meno intensamente e coscientemente, appoggiarono l’Olocausto e sulle quali grava il peso e la responsabilità delle azioni commesse e dei silenzi consapevoli. Per esempio quello della polizia francese che, assecondando la follia del Fuhrer, sequestra circa 13.000  ebrei, per lo più donne e bambini, nel Velodromo d’Inverno, primo campo di smistamento nella lunga odissea che condurrà i prigionieri verso i lager di Auschwitz, Treblinka, Mauthausen. Ancora una volta ricompare “la banalità del male” e la capacità umana di compiere atrocità se sotto il patrocinio di un autorità superiore, con la conseguente “pseudo-deresponsabilizzazione” dell’individuo. Quello che il regista non vuole proporre in questo film è un nuovo Oskar Schindler, infatti non c’è un diretto richiamo al film di Spielberg con il quale Paquet-Brenner non si vuole confrontare. Pur restando lontano dai grandi colossal-holocaust, La chiave di Sara resta un film riuscitissimo nel quale certo ha  aggiunto valore il romanzo di Tatiana De Rosnay, che viene seguito scrupolosamente facendo innamorare del film persino la scrittrice del libro. Se il montaggio ci contrappone il presente e il passato è evidente come quest’ ultimo influenzi inevitabilmente ciò che siamo nel tempo presente. La memoria è infatti rielaborata in modo diverso dalle due protagoniste,  mentre Sara non riesce a testimoniare nulla del  suo passato rimuovendolo completamente,  la giornalista Julia fa riaffiorare  una storia interessante, ma troppo velocemente dimenticata.

La Storia (come  ricorda a Julia il rabbino del Memoriale che cerca di far riaffiorare, dalle tristi statistiche, dei volti e delle  storie umane)  tende a cambiare non solo  la realtà presente, ma anche la vita interiore delle persone; e un fatto così  atroce come la Shoah stravolge la vita di una giornalista  quando cerca di entrare in profondità e di far emergere i “Sommersi e i Salvati”. Il peso indelebile della memoria marchia così sia Sara, che nel 1955 commette suicidio, sia Julia che, nel nuovo millennio  decide di onorare la memoria di Sara chiamando con quel nome sua figlia. Anche qui dall’ orrore ancora una volta nasce la speranza nelle nuove generazioni con la piccola Sara, come Martina ne L’uomo che verrà.

Degna di lode è l’iniziativa della Lucky Red che ha deciso di organizzare un cineforum per le scuole con la distribuzione di un piccolo dossier sul film con qualche linea d’analisi; peccato che queste iniziative vengano prese solo in occasione di film sull’ Olocausto e non più spesso, per educare le nuove generazioni ad una coscienza critica dell’immagine e della sua potenza cognitiva. In un paese dove la maggioranza delle persone è analfabeta-visuale appare così convincente l’analisi che fa Roy Menarini sull’ attuale minoranza del cinema italiano rispetto a quello francese.

Il periodo più buio della nostra storia è stato offuscato in passato in gran parte dall’ ignoranza della gente e dalla sua ricettività verso la propaganda di Stato, un compito del cinema quindi è quello di dimostrarsi strumento capace di far pensare quello che non si pensa ancora. È sintomatico che un tema così già  ampiamente narrato lasci ancora spazio a nuove storie e a nuovi dettagli importanti.

Le sequenze del film  sono separate da continui flashback e flashforward, nella prima parte le inquadrature sono più strette sui personaggi mentre  verso il finale le panoramiche sulle città di New York e Firenze sanciscono l’abbandono di un passato  lontano, ma  tristemente vicino. Ottima la ricostruzione del Vélodrome D’Hiver, che fu distrutto molto tempo fa e sapientemente evocato dal regista attraverso le soggettive di Sara.  Ricordo che il Memoriale della Shoah, che appare in una scena, non era mai stato ripreso prima in un film di finzione. Le musiche contrappongono suoni lenti attuali a musiche e canti popolari yiddish per le parti girate nel campo di concentramento.

Film che merita veramente un enorme riconoscimento artistico, storico e sociale con un’immagine di repertorio che rievoca  le scuse solenni del presidente Chirac: “Quelle ore buie macchieranno per sempre la nostra storia e sono un insulto al passato e alle nostre tradizioni[…]La Francia patria dell’ Illuminismo e dei diritti umani, terra di accoglienza e di asilo ha compiuto quel giorno l’irreparabile. Mancando alla sua parola ha consegnato i suoi protetti ai loro carnefici”.

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