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R Recensione

7/10

THE DANISH GIRL regia di Tom Hooper

Biografico
recensione di daniele papa & Erika Sdravato

Nella Copenhagen degli anni Venti l'apprezzato pittore Einar Wegener inizia a posare per la moglie al posto di una modella donna. Il successo del ritratto convince Gerda a realizzare altri quadri con il marito vestito da donna. Successivamente Einar diventerà la prima persona a sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale, e Gerda sosterrà la sua decisione.

(Daniele Papa):

"Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?" Questa è il titolo di una delle più inquietanti tele di Paul Gauguin, che ben rispecchia come il Novecento sarebbe stato un secolo ossessionato dal tema dell'identità. E parla anche di questo il film di Tom Hooper che esce in Italia il 18 febbraio 2016 e che ha già ricevuto quattro candidature all'Oscar. Nel narrare le peripezie di colei che è considerata la prima transessuale ad aver effettuato la riassegnazione del sesso attraverso la chirurgia, il regista realizza una rievocazione di una Copenaghen e Parigi da cartolina anni Venti, tra etoiles della danza, eleganti feste borghesi e ambienti artistici bohemien che caratterizzarono quel periodo arcadico chiamato "Belle Epoque". Ed è in questo mileu che si muove l'apprezzato pittore paesaggistico Eddie Redmayne che inizia per gioco a posare e vestire da donna per la moglie, anch'essa pittrice, per poi scoprire di sentirsi veramente appartenente al sesso femminile. Tale presa di coscienza lo porterà tale ad intraprendere, pioneristicamente, il percorso per la riassegnazione chirurgia del sesso, mai tentata prima di allora. Un dramma interiore che diviene quindi lacerante soprattutto per il rapporto con la consorte che, prima contraria, poi incorraggerà la scelta del marito: il conflitto, però, viene dal regista soltanto sfiorato garbatamente, attraverso il tratteggio di tableaux vivants ipersaturi incapace di trattenere, in una sola immagine, l'abisso di un'anima prigioniera di un corpo che non le appartiene. ll dramma di Lili (come inizia a farsi chiamare Eddie) non rende infatti molto conto dell'introspezione psicologica di questa incantevole martire. dell'ortodossia del tempo: nè secondo me è all'altezza la sceneggiatura, nel descrivere la complessità e l'importanza de "la ragazza danese". Ma forse al regista non interessa dare un'analisi sociologica della nascita del transgenderismo, quanto dipingere un quadro variopinto dove anche tutti gli attori sembrano posare invece di recitare, come modelli mollelemente adagiati su fondali impeccabili e ipersaturi. Ma se non è un capolavoro di film, è senz'altro una grande esperienza visiva, che rimane interessante per aver dato una sofisticata instantanea di un periodo di grandi mutamenti sociali: mentre infatti la psicoanalisi iniziava a studiare l'anima divisa tra Io, Super Io e Es, la storia di Lili è quella di una grande rivoluzionaria che ha anticipato, come più tardi annunciò Simone de Beauvoir, che "Donne non si nasce, si diventa".

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(Erika Sdravato):

Questa è la storia prima di un uomo e una donna, poi di due donne, ed infine di una donna, sola. Tutti incarnati da due unici personaggi. Lui dipinge paesaggi (che ricostruiscono quelli della sua infanzia), lei delinea ritratti (del compagno avvolto in passamanerie, crespi di seta e faille): già da ciò che fanno, si capisce come marito e moglie vedano la propria arte (e, di rimando, la propria esistenza) l'uno come specchio di ciò che era ed ammirava, e l'altra come riflesso di chi ama di più al mondo. Einar Wegener riporta sulla tela gli scorci della Vejle di fine Ottocento, luogo di crescita e del primo amore omosessuale, Gerda Gottlieb disegna con pennellate ampie e precise il volto del ben più celebre consorte, tinteggiato con rossetto e mascara. E poi c'è Lili che, nata da e nel vero Einar, abbandona l'attività di quest'ultimo fino ad allontanarsi completamente da lui, acquisire passo a passo un'identità propria e perderla per sempre con lo scopo di ottenerla nella sua pienezza. Ci sono opere nella carriera di alcuni artisti che non richiedono replica, che non meritano osservazioni benevole, che non producono salti di qualità, che non agiscono favorevolmente in un'ottica di arricchimento della propria Persona, che in tal caso non è solo chi agisce dietro lo schermo ma anche chi subisce davanti (al bando ogni sorta di significanza passiva del verbo!). D'altro canto, ce ne sono altre in cui risulta impossibile non celebrarne il doveroso plauso. E poi c'è The Danish Girl, che sta quasi a metà strada, rincorrendo stentatamente la seconda opzione. Film lento non tanto per la complessità dell'intreccio, quanto forse per la difficoltà di muoversi con scioltezza sotto il peso narrativo e umano affrontato. Film delicato, come i movimenti di macchina, i cambi di inquadratura, i colori della fotografia, gli sguardi di disperazione dei protagonisti. Film fin troppo ingentilito, per non turbare la turba poco gentile. The danish girl è un intonato e sussurrato inno alla sacrosanta libertà di vivere se stessi senza obbligate appartenenze di genere, senza restrizioni dettate dalla medicina cieca (come quella accademica francese di un secolo fa) e dalla ottusa società, attraverso la soluzione di un'avanguardistica apertura mentale. Ma, soprattutto, è un canto di vittoria che tocca le note dell'amore imperfetto, quello che pone l'accettazione dell'altro come assunto basilare del proprio sentimento, quello che supera i problemi più esiziali attraverso la comprensione e l'aiuto reciproco. In quest'ultima istanza è il personaggio di Gerda (Alicia Vikander) a dimostrare maggiormente tutta la propria affettazione e dedizione al marito, supportandolo in ogni fase dell'intervento fisico per la riassegnazione chirurgica del cambio di sesso (sperimentato per la prima volta nella storia sul corpo di Lili) e ponendosi non solo come moglie, ma anche come confidente ed amica del collega ed amato Einar (un profondo Eddie Redmayne, che si vede affiancato da una coprotagonista di notevolissima efficacia interpretativa). Col fine di ornare ogni singola e drammatica scena della pellicola Tom Hooper - coadiuvato dal direttore della fotografia Danny Cohen - sa esaltare egregiamente la bellezza e la raffinatezza degli interni della Parigi di inizio Novecento, i perfetti bilanciamenti cromatici degli arredi e delle vesti dei protagonisti, le acconciature sapientemente sinuose che incorniciano, insieme alle mani, i volti e le espressioni intense (e spesso esasperate). Si tratta di un film che capita a pennello nell'era a dir poco anacronistica che stiamo vivendo, e che pone (senza troppa incisività, purtroppo o per fortuna per qualcuno) interrogativi per molti versi ancora irrisolti e talvolta scomodi, come quelli relativi alla logica (trans)genderista ed eterosessista che intrappola alcuni individui dentro lo stereotipo di genere. Paesaggi e ritratti, si diceva all'inizio. Paesaggi come quelli di chi si rivolge all'intero scenario della propria vita per cercare se stesso/a e ritratti di chi si dedica al particulare (sì, quello guicciardiniano) per trovare il proprio unico punto di riferimento in qualcuno che si ama o il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso. Ci sono quindi Lili e Gerda. Due artiste e, prima ancora, due donne che, di quell'interesse, hanno fatto il loro amore senza identità di genere. E senza arrières pensèes.

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