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7/10

The Iron Lady regia di Phyllida Lloyd

Biografico
recensione di Giulia Bramati e Matteo Triola

 Un'anziana Margaret Thatcher, colpita da demenza senile, ripercorre nei momenti di lucidità le conquiste e le delusioni della sua vita.

Giulia Bramati

Alla fine degli anni '50, una donna iniziò a farsi strada nel partito conservatore inglese, fino a raggiungere la posizione di Primo Ministro nel 1979 e a conservarla per oltre un decennio. Margaret Thatcher scavalcò una politica prettamente maschile e fu la prima donna a ricoprire la più alta carica dello Stato. “The Iron Lady” non è, però, un film politico. È una pellicola nostalgica, che parla di una donna che è stata una profonda innovatrice, ma che ora è costretta a fare i conti con ciò che è diventata e ciò che ha perso: è una donna confusa, che conversa con il marito, morto ormai da anni; la sua vita, dopo la separazione dalla politica, ha perso di significato: vive nel ricordo del passato glorioso.

Phyllida Lloyd impegna tutta la sua esperienza teatrale e cinematografica per dare vita ad un film che celebra il successo della donna attraverso immagini eloquenti: dal primo ingresso della Thatcher in parlamento, quando è l'unica a portare scarpe con il tacco in mezzo ad una folla di uomini, fino al raggiungimento della carica di Primo Ministro, quando ogni suo passo è seguito da decine di uomini. Sono movimenti corali che ricordano il precedente film della Lloyd, “Mamma Mia”. I due film hanno un'altra similitudine: la protagonista è Meryl Streep, che ancora una volta dimostra la sua strabiliante dote nell'arte della recitazione. L'attrice sveste i panni della madre single in un'isola greca per vestire quelli della seria e forte Mrs Thatcher. Ed è proprio lei a rendere la pellicola interessante: la Streep abbandona l'accento americano per acquisire quello britannico della Iron Lady e viene sottoposta ad un trucco ben assestato, che la rende simile alla vera Thatcher. In un'intervista, l'attrice ha dichiarato che ammira molte delle qualità della donna che interpreta, ma non condivide la maggior parte della sue scelte politiche. Il film non ha nessuna mira propagandistica: le riforme della Thatcher vengono solo accennate; la sceneggiatura, scritta da Abi Morgan, già co-sceneggiatrice di “Shame”, è incentrata su un dramma che si consuma nelle mura domestiche della donna: l'avanzare della malattia e le conseguenti crisi.

Il film ha destato molte polemiche nel Regno Unito, sia perché il racconto della malattia di una donna ancora in vita è stato ritenuto scandaloso, sia perché la politica della Thatcher non è stata amata da tutti. Il punto forte del film è dunque l'interpretazione della Streep, sorprendente come sempre, che le è valsa l'ottavo Golden Globe; accanto a lei, un talentuoso Jim Broadbent, premio Oscar nel 2002 per “Iris – Un amore vero”, che interpreta in modo coraggioso Denis Thatcher, senza preoccuparsi di azzardi interpretativi e facendo risultare il personaggio molto umano.

La regia della Lloyd ambisce a fornire un ritratto realistico dell'anzianità, scelta rischiosa in quanto l'anzianità raccontata è quella di un mito ancora vivente. Questo è il motivo delle stroncature che il film ha ricevuto: i britannici hanno visto il film come una umiliazione di un loro Primo Ministro da parte di una produzione americana. L'intento della regista non era provocatorio, ma volto a rendere meno rigida la figura della Iron Lady.

L'intreccio non risulta particolarmente originale, in quanto una biografia raccontata attraverso i ricordi della protagonista anziana è stata ormai collaudata (“Titanic” e “Le pagine della nostra vita” ne sono esempio), ma nel complesso il film è piacevole e interessante.

Matteo Triola

Girare un “biopic” è già di per sé un'impresa delicata e dagli esiti incerti; decidere di incentrarlo su un personaggio del calibro di Margareth Thatcher, poi, equivale quanto meno a rivendicare una forte consapevolezza di andare incontro ad una lapidazione preventiva da parte della critica di qualsivoglia fazione. Troppo densa la vita di un personaggio storico di questo livello, e decisamente troppo complesso tracciarne un quadro esauriente che calzi a pennello nelle 2 ore canoniche delle pellicole contemporanee, oltre le quali si rischia di annoiare lo spettatore medio. Figurarsi poi con un tema storico! Ma andiamo per gradi, e vediamo come se l'è cavata la regista Phyllida Lloyd, dopo il successo planetario di Mamma Mia! (2008), nel confronto con un gigante come la britannica “Lady di Ferro”.

I tempi sono cambiati, non sono più i turbolenti anni '70 delle sommosse popolari (è proprio così?), e di certo i grandi statisti che hanno calcato la scena politica internazionale sono scomparsi da un pezzo, lasciando il passo alle loro comparse improvvisate. Sull'onda del ricordo, e della nostalgia, entriamo nell'intimità domestica dell'ormai ottantenne Margareth - una straordinaria Maryl Streep, calata perfettamente nell'ennesima prova da Oscar, accento “british” e rughe comprese - rimasta vedova del marito Denis (Jim Broadbent, un'ottima spalla per la Streep), e costretta da una grave forma di demenza senile ad essere accudita e guardata a vista dalla figlia Carol.

Nei giorni in cui la donna finalmente si decide a mettere da parte i vestiti del marito defunto, ecco che Denis comincia a manifestarsi in ogni momento della giornata, non appena Margareth indulge in qualche ricordo o si lascia andare alle interferenze tra passato e presente che la malattia le causa, facendole credere di essere ancora Primo Ministro. Mentre lei lotta per mantenere il proprio equilibrio, Denis la prende in giro e la punzecchia; ripercorriamo così mentalmente le tappe della vita che l'hanno vista mutare, da volitiva adolescente con la risposta sempre pronta nella “Lady di Ferro” universalmente nota - così la ribattezzarono ironicamente i sovietici - battagliera e testarda, artefice di scelte politiche coraggiose ma anche molto impopolari e osteggiate, come la “poll tax” o la guerra delle isole Falkland. Non mancano momenti più rilassati e comici, come la scena in cui i consiglieri di immagine della Tatcher - non ancora a capo del Partito dei Conservatori - la “addestrano” a modulare la voce, per infondere sicurezza e autorevolezza, come un vero leader deve saper fare. Lei, figlia di un droghiere, una donna venuta dal nulla per sfondare le barriere di genere e di classe, che imparerà a sue spese come farsi ascoltare in un mondo dominato dagli uomini.

Prima donna premier di una democrazia occidentale, undici anni al numero 10 di Downing Street dal 1979 al 1990, la Thatcher è stata molto amata dalla destra conservatrice e al contempo contestata dalla sinistra e dalle forze sindacali. A ben guardare, questo è un film sul potere, e il prezzo che viene pagato per esso. Una storia che è allo stesso tempo unica ed universale. E nonostante la sceneggiatura, scritta da Abi Morgan (cosceneggiatrice di Shame”), ricalchi una struttura già collaudata, quello che ne emerge è un ritratto dai contorni sfocati: una figura pennellata un po’ troppo frettolosamente, di cui, invece, si vorrebbe sottolineare la complessità. Le sue decisioni spesso dolorose e impopolari risultano più l’effetto dell’intestardirsi di una donna molto pragmatica e dominata dall’ambizione, piuttosto che di una brillante statista (quasi mancassero i chiaroscuri). L’intento dichiarato della regista è quello di concentrarsi sulla dimensione privata di una donna anziana alle prese con i ricordi di un passato glorioso, piuttosto che sulle strategie che l’hanno portata a Downing Street, e sul prezzo da pagare in cambio del successo. Alla fine della fiera, ne emerge una donna che ha sacrificato gli affetti famigliari - verso i quali il film suggerisce ci fosse una certa distanza affettiva - pur di continuare l’inarrestabile scalata al potere.

"Questo non è un documentario - ha dichiarato Meryl Streep - abbiamo piuttosto voluto raccontare la storia di una donna che ha vissuto a fondo la sua vita”.

Vero, ma è anche vero che non si può dare una lettura così eccessivamente bonaria e soft di un personaggio tanto politicamente scorretto come la baronessa Thatcher. Il film che ne viene fuori è sicuramente un prodotto gradevole, nel suo insieme, ma un po' più di coraggio e di approfondimento avrebbe di certo giovato. Prendere una parte, quale che sia, a volte paga. Non ultimo, la regia, che a tratti preferisce rinchiudersi in uno stilismo visivo che strizza l'occhio a certo cinema hollywoodiano. Una responsabilità non da poco quella di affidare a Phyllida Lloyd la regia di questo progetto. Lei che - oltre al già citato Mamma Mia! - aveva già diretto un film per la TV britannica, Gloriana”, la cui trama ruotava attorno al personaggio di Elisabetta I. Con un salto di circa cinque secoli, dunque, a tenere banco è una storia analoga: quella di una donna al potere, che, come la figlia di Enrico VIII ed Anna Bolena, ha inciso in misura rilevante sulle condizioni del Regno Unito.

La Streep, da parte sua, aggiunge a una lunga lista di interpretazioni perfette e mimetiche il ruolo forse più incredibile, riproducendo della Thatcher – complice anche un ottimo make-up – la gestualità, l’accento brit molto caratteristico, il tono della voce prima strillato e poi corretto dalla dizione e gli sguardi imperiosi, assicurandosi (dopo il trionfo ai Golden Globes) un posto di tutto rispetto tra le nomination agli Oscar. In bocca al lupo, dunque, Meryl!

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