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R Recensione

7/10

Franklyn regia di Gerald McMorrow

Fantasy
recensione di Davide Speranza

Un uomo cerca il figlio scomparso da anni. Una giovane donna filma il proprio suicidio in nome dell’arte. Un cacciatore di taglie deve vendicare la morte della sua ultima cliente. Un ragazzo incontra la donna amata che aveva perduto. Quattro storie, all’apparenza prive di un legame solido e razionale. Cosa si nasconde dietro le vite di questi individui? Cos’è la Città di Mezzo? E soprattutto, chi è Franklyn? Solo alla fine il nodo sarà sciolto tra morte e redenzione.

E se la nostra vita, con tutta la sua colorita ricchezza e i suoi grigi risvolti, la nostra vita, con le sue perdite e le sue conquiste, se questa nostra tremenda e misteriosa vita, il nostro “essere” in terra, fosse solamente un racconto? Una narrazione, una storia o, perché no, una favola?  

Il voto più che sufficiente che do al film di Gerald McMorrow è giustificato dalla potenza visiva con cui la grafica si impone e anche dallo sforzo del regista e sceneggiatore di costruire un’opera diversa dalle altre. Ma ci riesce solo in parte. La sceneggiatura ha molti buchi, personaggi non ben caratterizzati e snodi narrativi un po’ forzati. Eppure la storia può piacere, o almeno ci prova, a piacere.  

Diciamolo meglio: non è un film che tutti sono disposti a comprendere. Questo soprattutto per una pubblicità e un trailer sbagliati. Ciò che è stato esaltato della pellicola è la sua ambientazione quasi da cyberpunk, alla Matrix, per intenderci, con un mondo popolato da strani personaggi e un tipo in maschera che va alla ricerca di un killer. E devo confessare di essere rimasto piacevolmente colpito dal film dopo averlo visto e orrendamente disgustato dall’operazione di promozione che ne hanno fatto.  

In realtà è la storia di quattro persone. Un padre alla ricerca del figlio scomparso, ossessionato dalla figura di Dio; il figlio del vecchio bigotto, che è impazzito dopo essere tornato dalla guerra in Iraq ed aver assistito alla scomparsa della sorellina piccola (per cui comincia a prefigurarsi un delirante e grottesco mondo, dove tutti gli abitanti della “Città di Mezzo” devono seguire una religione); una giovane artista che usa la morte come massimo mezzo di espressione artistica e un ragazzo alla ricerca di un amore ideale.  

Quattro storie, quattro personaggi, quattro perdite. Ognuno ha perso una persona cara, la purezza, il candore. E ognuno cerca di recuperare un senso nella propria vita. Si incroceranno le quattro storie, oh si che s’incroceranno. Ma prima che questo accada, si fatica a capire il nesso che le lega. E forse il bello sta anche qui: riuscire a comprendere i fili invisibili che tengono unite le quattro esistenze, mettere insieme i puzzle del rompicapo uno ad uno, con grande pazienza, cercando di stare al gioco filmico.  

Sopra tutto c’è un uomo. Un addetto alle pulizie di un ospedale, che incontra i quattro sfortunati: è lui che su un blocchetto, forse una moleskine, annota, appunta idee, che poi diverranno bozze e infine storie. È lui il Demiurgo? 

Dunque un film sulla perdita, quella che ognuno di noi subisce durante la propria esistenza e si porta dietro per anni, forse per sempre, senza aver colmato quel vuoto, generando così una schizofrenia di fondo.  

Ma anche un meta-film, una meta-narrazione. Narrazione di narrazioni. È il film che si guarda allo specchio e riconosce le sue fattezze. Lo spettatore non può far altro che stare ad osservare il caos che regna.  

Non si può dire di più. Franklin è una di quelle storie che devi vedere per capire e comprenderne fino in fondo gli intrecci, le sfumature. Ripeto: non è una storia semplice. Non si vede Franklin seduti in poltrona con il popcorn in una mano e una patatina nell’altra, sperando che prima o poi scenda dal cielo un’illuminazione sul suo significato.  

O si attivano le sinapsi, o nisba. In tal senso, ha qualcosa che lo accomuna a film come Matrix, Donnie Darko, con una miscela di sensazioni e atmosfere letterarie che vanno da Bradbury a Orwell. E potrà sembrare folle da parte mia, forse lo è (mi giudicherete fin troppo spregiudicato), ma questo tipo di cinema corale si avvicina a pellicole di Altman come Short Cuts o al Magnolia di Paul Thomas Anderson, rasentando il tema della schizofrenia ben delineato, tra l’altro, in A beautifil mind di Howard.  

Già vi sento urlare e inveire, per aver toccato la vostra fede di cinefili. In effetti ammetto di aver esagerato, ma se vedrete il film capirete che non è assolutamente classificabile. Non mi sto riferendo alla qualità dell’opera, né all’intreccio della fabula, bensì al concetto. Tutto è narrazione, ogni cosa che tocchiamo e viviamo è un racconto dell’uomo. Questo è il concetto che passa attraverso Franklyn. Insomma, una sorpresa. Ma una sorpresa che poteva essere costruita meglio. Quindi, occasione perduta, in parte. Io consiglio di andarlo a vedere. E di criticarlo.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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alexmn 7/10

C Commenti

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Peasyfloyd, autore, (ha votato 6 questo film) alle 10:11 del 26 giugno 2009 ha scritto:

azzeccatissima la rece: perfetto il riferimento al cinema corale dei vari altman e anderson. Così come sono d'accordo sul grosso fidetto del film: quello di non caratterizzare adeguatamente le narrazioni dei singoli personaggi, tanto più che per tre quarti del film rimani lì a chiederti come cazzo andranno a connettersi questi quattro episodi diversi. poi piano piano ci si avvia ad un filo logico ma quanta fatica! Cmq ì vero che uno si aspetta tutt'altro, e in effetti fotografia, costumi e immaginario gotico alla guillermo del toro sono di fatto la cosa più intrigante del film, così come la polemica di sottofondo sul tema della religione. Ottima rece!