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6/10

These Final Hours regia di Zak Hilditch

Fantascienza
recensione di Fabio Secchi Frau

  A una manciata di ore dalla fine del mondo, si segue il giovane James all'interno di una città caotica e senza più alcun freno o inibizione, all'interno della quale tenterà di protegere una bambina abbandonata a se stessa dalla bolgia di follia umana che si sta scatenando.

 

   Selezionato per la Director’s Fortnight section del Festival di Cannes del 2014, These Final Hours è una grande piccola storia di amore, di morte e di paura seguita con occhio clinico.

  All’interno di una città australiana che è diventata un luminoso manicomio criminale moderno dopo la notizia della fine del mondo (alla quale mancano una manciata di ore), si espongono tutte le perturbabili follie della gente di fronte a quello che è il timore più enorme da dover affrontare: la propria inevitabile morte.

  Così, fra inibizioni sfrenate e pluriomicidi, si segue con il protagonista una vena di follia che percorre tutta la pellicola, perseguitati dall’idea di rimanere razionali e umani, nonostante tutto il resto del mondo abbia perso il controllo.

  Provocatoriamente, si potrebbe dire che These Final Hours parla essenzialmente di redenzione. Una redenzione ultima che è forte, passionale, violenta, non consapevole. La redenzione di James verso Zoe (la sua fidanzata incinta che ha abbandonato), tanto per cominciare, o quella che James per il figlio che mai vedrà attraverso Rose (la piccola e incauta bambina abbandonata a se stessa), che gli restituisce quel senso di paternità capace di proteggerla da realtà che viola ogni regola di buon senso e moralità e trasformandolo da vigliacco irresponsabile a un uomo coraggioso, intelligente, quasi normale.

  C’è giusto nella sceneggiatura qualche perplessità, dovuta a una grossa componente di prevedibilità che toglie forza alla narrazione. La scrittura è comunque sufficientemente buona a far provare una certa avversione per i personaggi e a domandarsi come sia possibile che possa davvero succedere quello che succede.

  La regia, dal canto suo e supportata da una fotografia a tratti superlativa, usa ogni inquadratura come fosse una calamita messa per attrarre lo spettatore tra le scene e impedirgli di staccarsi, anche solo per respirare.

  Non è un’opera stupenda, non è meravigliosa e non è il film più bello del mondo (o della sua fine), ma a modo suo convince e rispetta le aspettative che grossomodo lo spettatore si pone. Questo, lo fa entrare di diritto nella lista di quei film che si amano o si odiano, di quei film che sono belli o brutti, di quei film per i quali una parte del pubblico prova una distinta attrazione e un’altra una distinta repulsione. Solo con il termine della pellicola, lo spettatore capisce perfettamente quale è la sua posizione.

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