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9/10

L Uomo Che Venne Dalla Terra regia di Richard Schenkman

Fantascienza
recensione di Cristina Coccia

Il professor John Oldman (probabile gioco di parole) sta per lasciare l’università in cui insegna e, durante il trasloco, i suoi colleghi si presentano a casa sua per una festa d’addio a sorpresa. Tra loro ci sono: Harry (un biologo), Edith (una studiosa di Scritture Cristiane), Dan (un antropologo) e Sandy (una dottoressa in storia, innamorata di John). Discutendo del più e del meno, a causa di un bulino risalente all’epoca magdaleniana, John rivela di essere un uomo della preistoria, un Cro-Magnon di 14000 anni sopravvissuto, probabilmente (come suggerisce Harry), grazie ad un’ottima capacità di rigenerazione cellulare. Intanto un altro professore, Art, un archeologo, si unisce a loro con una giovane e curiosa studentessa e, in seguito, anche il Dottor Will Gruber, un anziano psichiatra, giunge alla dimora di John.

Si metta insieme una sceneggiatura perfetta e meticolosamente studiata da un genio del calibro di Jerome Bixby (che ha lavorato a Star Trek, Ai confini della realtà e Viaggio allucinante) e un tema inesauribilmente accattivante come l’immortalità e si avrà un mix che inchioda letteralmente lo spettatore allo schermo per 87 minuti, soltanto con la potenza dei dialoghi e delle riflessioni che scaturiscono da ogni legittimo interrogativo sorto durante lo svolgimento della trama. Si dice che questa sceneggiatura sia un simbolico testamento di Bixby che ha dettato le ultime scene a suo figlio Emerson nell’aprile del 1998 e, dopo la visione della pellicola, ci si rende ben presto conto di trovarsi dinanzi ad un film di fantascienza senza alcun effetto speciale, realizzato con un budget di soli 200.000 dollari ma che riesce a creare un climax sconvolgente, portando alla continua messa in dubbio di ogni convinzione umana.

La discussione tra i personaggi che si confrontano nel salotto del Professor Oldman tocca temi come il tempo, visto come una pura convenzione imposta dall’uomo, la morte e naturalmente l’immortalità, trattata in senso scientifico ma soprattutto in senso narrativo e leggendario. Si passa dalla citazione di personaggi fantastici come vampiri e mostri gotici a figure storiche reali come Hammurabi, Colombo, Voltaire, Laplace e Buddah.

Inevitabilmente si approda al tema religioso e John sostiene di non aver bisogno di cercare un principio divino nell’universo ma, messo alle strette, rivela di essere stato, per una serie di equivoci, un personaggio chiave della storia e della religione. Nessuno sa se credere o meno alla sua rivelazione, ma lui è estremamente abile nel togliere ogni dubbio, così, tra discussioni, segreti e sconvolgimenti teologici, Oldman emoziona e, a volte, turba i suoi ospiti, fino a giungere ad una serie crescente di colpi di scena finali.

Il film è interamente girato in una baita con un salotto e un caminetto e tutti gli ambienti esterni si riducono ad una veranda o, al massimo, all’interno di un’auto. Non ci sono dettagli rilevanti nella scenografia (molto scarna ed essenziale), ma tutto si riduce ad una discussione tra intellettuali e scienziati sostenuta dall’ottima recitazione degli attori e da impercettibili e lenti cambiamenti nelle luci e nei piani. Si passa dalla luce diffusa, dai piani medi o americani, ai primi piani e alla luce orientata che proviene dal fuoco del caminetto. Questi mutamenti vengono utilizzati per creare l’intimità, per preparare lo spettatore ad entrare in una dimensione più introspettiva e profonda, a focalizzare maggiormente sui personaggi e sulle loro reazioni. Tutto è contestato, ogni paradigma viene reinterpretato secondo la visione di un uomo che ha sempre vissuto fuori dal tempo e che, forse, l’ha visto con occhi profondamente diversi, quasi con una sorta di distacco. Ed è proprio nel punto più alto del climax che viene introdotto nella scena l’unico elemento musicale, il secondo movimento della Sinfonia n°7 di Beethoven, con cui si apre la dissertazione gnoseologica sull’arte e sulla conoscenza come strumento per creare un equilibrio tra la razza umana e il suo ambiente.

Nel cast figurano alcuni volti noti di serie tv e film degli anni ‘80 e ‘90, come William Katt (Perry Mason e Un mercoledì da leoni) e Tony Todd (conosciuto per il ruolo del killer Candyman), ma anche interpreti contemporanei, come John Billingsley (Phlox in Star Trek: Enterprise) o Richard Riehle (già visto in Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, Paura e delirio a Las Vegas e la serie Buffy). Al loro fianco ci sono presenze poco note che tuttavia si rivelano ampiamente capaci di sostenere questa interpretazione sicuramente molto più teatrale che cinematografica; tra tutti: Ellen Crawford (Edith), Annika Peterson (Sandy) e Alexis Thorpe (Linda). Naturalmente il vero punto di forza del cast è David Lee Smith (Fight Club, Dollhouse, C.S.I. Miami, ecc.), che rende magnificamente il difficile personaggio di Oldman.

Quali dubbi dilaniano la mente di un immortale? Esistono certezze assolute in cui credere nel corso delle epoche o tutto lo scibile umano è destinato ad essere considerato una convenzione approssimativa? The Man from Earth è un film indipendente in cui la ragione e la logica della scienza umana passano in secondo piano e ci si ritrova ad analizzare miti e leggende alla ricerca della vera natura dell’individuo e del suo innato bisogno di conoscere se stesso e i suoi limiti. Attraverso la fede, la storia, la filosofia, l’arte e le teorie scientifiche si può giungere a comprendere che, forse, il bisogno di amare e di creare una connessione con i nostri simili è più forte di qualsiasi insana e sterile speculazione solitaria. La fantascienza, quando tocca temi così complessi, arriva spesso ad essere introspezione e, nella finzione, si cerca sempre più il significato della nostra realtà. Quando, muovendosi da presupposti economici tanto modesti, si approda a riflessioni simili, si può definire una rappresentazione come questa, frutto di geniali intuizioni narrative.

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