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9/10

Il Vampiro Dell Isola regia di Mark Robson

Horror
recensione di Matteo Losi

1912. A causa di un morbo letale e contagiosissimo, un gruppo di persone si ritrova bloccato su un'isola greca, nel bel mezzo della Guerra dei Balcani . La gravità della situazione mette a dura prova la lucidità dei malcapitati, tanto da riportare alla luce antiche superstizioni e leggende, come quella della "Vorvolaka". Che fra di loro ci sia davvero una vampira?

All’epoca fu un mezzo fiasco, almeno stando ai magri incassi che questo horror – fra i più costosi realizzati dalla RKO durante l’ormai mitica era Van Lewton – riuscì a racimolare al botteghino nella seconda metà del 1945. Tipico caso di idiozia collettiva: il film è oro puro, da annoverare fra i massimi traguardi raggiunti dalla casa di produzione newyorkese assieme all’acclamatissimo “Cat People” (ovviamente…) e all’irraggiungibile (in ogni senso) “The 7th Victim”. Ma “Isle Of The Dead / Il Vampiro Dell'Isola” è anche uno di quei film sui quali si potrebbero spendere ettolitri d’inchiostro virtuale in tutta scioltezza, vista la mole di spunti e prelibatezze tematico-visive a cui uno studioso competente non saprebbe - né oserebbe - opporre resistenza. Chi scrive, essendo tutto fuorché uno studioso competente, si limiterà a fare qualche considerazione a casaccio, sperando di non incappare in macroscopici errori o fraintendimenti di sorta.

Ambientazione. Sì, è proprio "L’Isola dei Morti” di Böcklin (qui ubicata presumibilmente nel Mar Egeo), e già l’idea basta a tracciare un raccordo fra esperienze artistiche talmente lontane ed appaganti (da una parte l’horror “low-budget” dei ‘40s, dall’altra il simbolismo pittorico di fine ‘800) da sublimarsi a vicenda. Ad ogni modo, la cornice scenica rispetta fedelmente il sinistro intrecciarsi di motivi architettonici, natura e rovine che ha reso il ciclo di opere dell’artista svizzero uno dei più apprezzati/temuti/riveriti/odiati/blasonati tentativi di raccordo fra conscio e subconscio, razionale ed irrazionale. Di conseguenza la narrazione filmica accosta, in tutta fluidità, paesaggi nei quali predomina di volta in volta l’elemento gotico (cripte, sepolcri, la mostruosa statua a tre teste che vigila sull’isola), quello esotico (la vegetazione ispida, avvolgente, inverosimilmente variegata) e quello folkloristico (gli ambienti della casa dell’archeologo Albrecht, i costumi, resti di pilastri – una volta templi – che ci parlano dell’antica civiltà ellenica). Senza star troppo a menarsela: tutto il film si svolge in un unico, mirabolante e fichissimo cimitero.

Sceneggiatura. Grecia, 1912. Il calvario della Prima Guerra Balcanica, con la sua scia di morti (impressionante il carrello con cui il regista Mark Robson ci mostra il campo di battaglia ancora lordo di cadaveri) e, soprattutto, lo spettro della pestilenza che aleggia ovunque. Perfino in quel sinistro isolotto, apparentemente disabitato, dove il giornalista americano Oliver Davis e il Generale Nikolas Pherides (parte il coro: Kar-loff! Kar-loff!...) si recano per rendere omaggio alla tomba dove giace la moglie di quest’ultimo. Ecco il baricentro della tragedia spostarsi prepotentemente: dalle trincee sulla terraferma alla dimora di Albrecht e dei suoi bizzarri ospiti, isolata dalle acque. E stavolta il nemico non è visibile, non si possono mica elaborare piani di battaglia; ogni strategia frana di fronte al venir meno del potere umano sulla natura (e sull’esistenza nel suo complesso).

Relazioni morbose escluse (emblematica quella tra Mrs. Mary St. Aubyn e l’ancella Thea, quest’ultima interpretata da un’ammaliante Ellen Drew), tutta la prima parte del film è dominata da un elegante gioco al massacro in cui il killer non ha le sembianze di un pazzo omicida, bensì di un virus; sotto questo punto di vista, anzi, “Isle Of The Dead” si candida a possibile antecedente del filone orrorifico basato su contagi e infezioni (in realtà una variante del body horror, ma si sta divagando…). Non è il corpo, ad ogni modo, l’oggetto cardine dell’analisi: la sceneggiatura, scritta principalmente da Ardel Wray, indaga piuttosto i segni intangibili della mortalità umana, il dilaniante scontro fra soprannaturale e raziocinio, confermando la dimensione esistenziale come uno dei capisaldi della poetica horror targata Van Lewton.

Karloff. Nei panni del Generale Pherides, l’attore ci regala una delle sue performance più memorabili, arrivando forse a sintetizzare in modo definitivo il dualismo che da sempre informa la sua concezione del “villain” nel perimetro dell’horror cinematografico classico. Malvagio ma animato da un alto ideale di giustizia, privo di compassione e strenuo difensore della Legge: Pherides combatte il Tristo Mietitore con ogni mezzo a sua disposizione. Da molti evidenziato con un filo di polemica, il suo passaggio dal razionalismo ortodosso alla superstizione più bieca non è affatto una contraddizione, bensì un semplice adeguamento alle mutate condizioni di battaglia: con la sconfitta della scienza (Dr. Drossos), è la leggenda della Vorvolaka ad imprimersi nella mente del vecchio guerriero come unico elemento che giustifichi la sciagura. Egli, in sostanza, agisce per il bene dei civili e delle sue truppe, ma sbaglia metodica. Due gli errori mastodontici.

1) La legge positiva non esaurisce (anzi, spesso contraddice) il reticolo tentacolare delle “morali” a cui il genere umano ha affidato la propria sussistenza (“Laws can be wrong and laws can be cruel, and the people who live only by the law are both wrong and cruel”, lo ammonisce Thea).

2) Il nemico da affrontare è ben al di sopra della sua portata; a nulla contano ossessioni igieniste (frequenti le sequenze in cui i personaggi si lavano le mani, quasi per scrollarsi di dosso il fetore del male) e divieti di contatto fisico. Arriva la morte, sempre la morte, e molto velocemente.

Impantanato nel fatalismo che avvolge ogni suo gesto, la maschera Karloff si accolla tutto il peso del destino avverso rifinendo una mimica (e)straniata, capace di incutere timore e al tempo stesso rivelare lo straziante conflitto interiore che logora il suo personaggio. Mito.

A proposito di finali… Tranquilli, non si vuol svelare alcunché. Soltanto anticipare che, fra diversi colpi di scena, ci sarà spazio per una sepoltura “prematura” e che, proprio a partire da quest’ultima (siamo a venti minuti dal “The End”), Robson ti combina il miracolo (l’ennesimo), creando una delle porzioni di celluloide più genuinamente terrorizzanti del cinema dell’epoca. Ogni segno del terrore RKO viene portato a un livello di pantagruelica, quasi insostenibile efficacia: mai gli effetti sonori erano stati così raggelanti, il montaggio così serrato, l’intrigo “vedo/non vedo” così seducente, i giochi di luce e ombre così maligni. Le strisce di luce che filtrano dalle persiane, in particolare, creano simmetrie stupefacenti, cicatrizzano le tenebre, si stendono come velluto sui corpi dei personaggi o li trafiggono come lame affilate.

Non c’è limite al potere suggestivo di queste immagini, almeno per gli occhi di chi scrive. Così come illimitato appare l’appeal de "Il Vampiro Dell'Isola” nella sua interezza. Un capolavoro troppo spesso ingiustamente ritenuto “minore”, in realtà visione essenziale. Cadavere irresistibile da riportare in vita ad ogni costo.  

 

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