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7/10

A girl walks home alone at night regia di Ana Lily Amirpour

Horror
recensione di Fabio Secchi Frau

Le cose strane si muovono a piedi a Bad City. La città iraniana dei fantasmi, è il rifugio delle prostitute, dei tossici e dei magnaccia e di tutte le anime perverse. È un luogo che puzza di morte e senza speranza, dove un vampiro solitario minaccia gli sgradevoli abitanti della cittadina. Ma quando un ragazzo incontra una ragazza, inizia a sbocciare una anomala storia d’amore... rosso sangue. Il primo vampire western iraniano, il debutto cinematografico di Ana Lily Amirpour si crogiola nel tagliente piacere del pulp. Una riuscita fusione di generi, archetipi e iconografie, influenzato da spaghetti western, graphic novel, film dell’orrore e il New Wave iraniano, amplificate da un mix di rock iraniano, tecno e tracce musicali ispirate a Morricone, le sue immagini in bianco e nero e l’aspetto volutamente artificioso delle scene dichiarano come modelli di ispirazione la ribollente tensione dei film di Sergio Leone e il surrealismo inquietante di David Lynch.

   Visto quello che è successo intorno a questo film, più che A Girl Walks Home Alone at Night verrebbe da intitolarlo A Iranianan Girl Walks Home Alone at Night in Iran, but this is not Iran.

  Ebbene, sì. Perché prima c’è stato il lancio di marketing di un film arabo sulla prima vampira iraniana, scandalosa perché uccide uomini (e quindi esercita un minaccioso potere su di loro) in una realtà estremamente arretrata dal punto di vista dei diritti femminili. Poi si vocifera della certezza di una censura politica per quest’horror che è riuscito comunque a sfuggire alle maglie del controllo culturale. Quindi, occhi puntati sulla regista, Ana Lily Amirpour, fino a scoprire che la stessa è solo di origini iraniane (è nata a Londra e vive in America), il film non è stato affatto girato nel Medioriente (ma nel Sud della California) e la storia della censura non è mai esistita. Ma il passaparola era già partito e gli incassi cominciavano ad aumentare tanto quanto i vari inviti nei Festival indipendenti (con grande gioia di Elijah Wood che è uno dei produttori).

  Eppure, nonostante il fumo ammaliatore davanti alle nostre pupille, voluto o non voluto, A Girl Walks Home Alone at Night si conferma un film (tra l’altro, nato da un corto omonimo) che nessuno aveva ancora mai visto (una rarità nel nostro campo, e lo dico da addetto ai lavori!!!), perché riesce a fondere vari elementi tradizionali in qualcosa di nuovo e originale.

  Ciò che veramente spicca in questo gioiellino indie low-budget è, infatti, il mash-up perfetto ed efficace di più generi cinematografici. C’è di tutto. L’estetica alla Jim Jarmusch, la sostanza di Aki Kaurismäki, la cupezza di Lasciami entrare, la leggerezza di Solo gli amanti sopravvivono, archetipi e iconografie sui non-morti, le influenze degli spaghetti western, una strizzata d’occhio alle graphic novels (basilari nella stesura e nella realizzazione di questo film), un bilancio sociale sulla donna musulmana, i film horror, la New Wave iraniana. Tutti uniti nel formare una solida ragnatela di stile, idee, cinematografie e atmosfere senza pari.

  Se un vero succhiasangue moderno deve esistere, è la protagonista di questa storia. Lei e solo lei. Immersa in un autentico ambiente urbano, con meno sequenze d’azione possibili, concentrata sulla sua solitudine, sul suo tumulto interiore, sull’esistenzialismo e sulla sua esigenza di trovare compagnia in quel baratro senza fine che per questi mostri è il Tempo. Un’entità demoniaca che vive in uno spazio teso, dove la paura si mischia al desiderio, anche quello romantico e velatamente erotico.

  Detto questo, A Girl ha tutto per essere un film di elevato livello culturale, ma forse pecca un po’ nella stasi, che fa rallentare (e a volte anche perdere) la singolare attenzione che esercita nello spettatore.

  Per la maggior parte del tempo, infatti, la sorprendente ed eccellente Amirpour guida in widescreen questa nave con fiducia, sicurezza e un sacco di amore e di cura per i particolari, costruendo un mondo meraviglioso (l’immaginaria città araba con raffinerie di Bad City, in realtà una scenografica, americana e impeccabile Taft colta nei suoi peggiori scorci periferici da sobborgo) che offre tutto lo spazio necessario per interrogarsi sui personaggi e le loro vite. A conferma di questo, il film piace per la presa estetica che ha sullo spettatore ed è un perfetto biglietto da visita per questa giovane che è sulla strada giusta per diventare una grande regista.

  Basilare la brillante fotografia in bianco e nero di Lyle Vincent e il fatto che sia girato (in soli 24 giorni) di notte, creando un contrasto cromatico e luminoso così netto da ipnotizzare lo spettatore in un’ambientazione da noir drammatico, quasi criminale, ma che in realtà è puramente soprannaturale. Attraverso le molte sfumature di grigio che colorano quel mondo, non passa la banale moralità di luci ed ombre, ma la freschezza, la tagliente e intelligente rivisitazione del genere vampiresco, la sdrammatizzazione dell’orrore tradizionale e gore, la forza onirica che ben si presta ad accompagnare gli sporadici dialoghi, costruendo con tutti gli altri elementi la rappresentazione di un universo scuro, ma non oscuro.

  Le convincenti interpretazioni fanno il resto. Sheila Vand (praticamente la sosia della regista) offre una performance inquietante. Occhi, gesti, mimica facciale. Tutto è sottile, inebriante, controllato, freddo, inumano e distaccato. Eppure, trasmette ciò che è necessario si trasmetta quando si tratta di alimentare il suo appetito, lasciarsi delicatamente sedurre, costeggiare lentamente le strade sul suo skateboard. Uno spettro pieno di charme che diventa simbolo nella iconica puramente magica. Ci sono pochissimi momenti in cui fa esplodere la sua natura demoniaca e animale. Uno di questi è la scena in cui sussurra all’orecchio di un bambino di “essere un bravo ragazzo, altrimenti…”, trasformando il suo ruolo in quello di una guardiana contro i cattivi ragazzi, come se volesse migliorare la società e contribuire all’emancipazione femminile.

  Un plauso va anche ad Arash Marandi, che ci viene presentato come il James Dean persiano dalla pettinatura profumatamente pagata in dollari. Un ragazzo che ha lavorato duramente per guadagnarsi la sua decapottabile del ’57, col padre afflitto dai debiti e dalla dipendenza dell’eroina.

  La sceneggiatura si rivela essere un'inquietante storia d’amore tra questi due disadattati che non dovrebbero stare insieme, ma che invece lo bramano con elegante chiarezza. La sicurezza della narrazione, poi, offre uno sguardo rivoluzionario e innovativo sul tema dell’immortale creatura della notte, senza che non si tema per la propria vena giugulare e senza mai perdere quell’atmosfera eccentrica e spettrale. Stupisce, invece, che una certa critica americana non abbia compreso lo script, accusando A Girl di essere un film pretenzioso, sciocco e vuoto, ma soprattutto di offrire, in quel ritratto di una vampira femminista iraniana che indossa un chador, ironia o ancora peggio stupidità. Il punto è, in realtà, un altro. In un mondo musulmano, una vampira che vuole sopravvivere DEVE nascondersi e fingere di essere ciò che in realtà non è, anche di notte. Quindi, una sottomessa. Sotto quest’ottica il chador è sì l’ennesimo simbolo di oppressione femminile, ma non se poi viene dalla vampira è usato come iconico, voluminoso e nero mantello alla Dracula. Una giustapposizione di entrambi i concetti che hanno reso il personaggio ancora più misterioso, potente e molto ammaliante, attribuendo al film poesia. Meglio di qualsiasi esplicito monologo sulla repressione femminile che si potesse mai fare al cinema.

  Non meno interessante la speciale e insolita la colonna sonora, costituita prettamente da orecchiabili canzoni pop iraniane, sfruttate al massimo anche quando alcune scene sono esplicitamente costruite proprio intorno al loro sound.

   Per concludere, c’è un’intelligenza sovversiva e rivelatrice in quest’opera della Amirpour. Il gioco di ossimori, di divari, di avvicinamento tra antico e moderno riesce, così come era riuscito nell’eccellente The Babadook di Jennifer Kent, a regalarci un horror impercettibilmente impegnato e dalla carica sociale graffiante. Grazie a questo, A Girl si conferma essere il volo di una falena cinematografica che si avvicina alla luce di un proiettore.

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