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9/10

Tom a la Ferme regia di Xavier Dolan

Drammatico
recensione di Federica Banfi & Fulvia Massimi

Tom (Xavier Dolan), giovane pubblicitario, arriva in piena campagna per un funerale e scopre che laggiù nessuno conosce il suo nome nè la natura della sua relazione con il defunto. Quando il fratello maggiore di quest'ultimo, Francis (Pierre-Yves Cardinal) impone un macabro gioco di ruolo per proteggere la madre (Lise Roy) e l'onore della famiglia, si instaura tra di loro una relazione perversa che potrà risolversi solo con l'affiorare della verità, qualunque sia il prezzo da pagare.

Federica Banfi (voto 8):

Xavier Dolan è un regista che fa parlare di sè sin dalla sua data di nascita. Classe 1989, è infatti uno dei più talentuosi e giovani registi dei nostri tempi. Nato professionalmente come attore in serie televisive e film e come doppiatore, arriva a godere di fama internazionale grazie alla sua attività di regista, partecipando al Festival di Cannes nel 2009 con il suo film di debutto J'ai tué ma mère, in cui interpreta anche il ruolo di protagonista. Nonostante la sua giovane età e la sua cortissima filmografia, che conta oggi di quattro titoli (il già citato J'ai tué ma mere, Les amours imaginaires, Laurence Anyways e Tom à la ferme), l'elenco tra nomination e i premi ottenuti supera di gran lunga quella della filmografia. Tom, in seguito alla morte dell'amante Gauillaume, si reca nella casa natale del ragazzo, per condividere con la famiglia il dolore della dipartita del razzo e trovare conforto in coloro che, a torto, pensava fossero i più vicini a lui: nessuno, infatti, è a conoscenza dell'omosessualità del ragazzo e tantomeno dell'esistenza di Tom. In un'epoca in cui il tema dell'identità sessuale e, in particolare, di quella dei più giovani, viene trattata nei modi più disparati e fin troppo spesso con leggerezza e superficialità, il giovane regista canadese, anch'egli omosessuale, giocando con la morbosità, i turbamenti giovanili, i meandri del cuore e della mente umana, riesce a mettere in scena un angoscioso e pessimista dramma da camera filmato sulle difficoltà dell'omosessualità ma, soprattutto, di un amore nascosto, e vergognoso (per gli altri). Attraverso l'omonima pièce teatrale di Michel Marc Bouchard, sulla quale il film è basato, Xavier Dolan ricostruisce il dolore di Tom, già sconvolto dalla dipartita del suo compagno, costretto a subire anche l'umiliazione di ricoprire, pur di non sconvolgere equilibri famigliari, il ruolo dell'amico, senza possibilità di scelta. Come in una tragedia greca, l'ambiente partecipa del suo dolore, la natura si fa oscura e brumosa, pronta ad accogliere la sofferenza e l'incredulità del ragazzo, aiutata da un'incredibile fotografia che ne desatura impietosa l'ambiente circostante. La crudeltà e il nascondimento divengono i veri protagonisti del dramma, entrambi incarnati dalla figura di Francis, fratello di Gauillaume e vero regista della pantomima che mostra Tom costretto a fingersi altro da sè e vedere ricoperto il suo vero ruolo, quello di compagno di vita, da una donna, che ne legge le parole scritte nell'ultimo commiato all'amato. Alla palese denuncia dell'omofobia, Dolan riesce a sostituire un più profondo e accorato studio sulla provincia, le sue discriminazioni e le sue chiusure. Sottolineato da musiche inquietanti e ctonie, ma anche accompagnato da lunghi silenzi, il dramma della discriminazione si consuma silenzioso, ma infido, incarnato dal ghigno di Francis, dall'essere donna di Sara e dall'amore ignaro di una madre. Un dramma fine, dunque, sull'omofobia, mascherato da thriller psicologico e coperto da atmosfere inquietanti da film horror, che sottolinea e conferma, ancora una volta, la grandezza del regista canadese.

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Fulvia Massimi (voto 9):

Il festival di Cannes – che per primo aveva creduto in lui quando nessuno avrebbe voluto finanziarne l’esordio – è stato per anni la sua seconda casa. Qui Xavier Dolan, ventiquattrenne prodigio del cinema québécois, aveva presentato nel 2009, poco più che post-adolescente, l’opera prima J’ai tué ma mère, e i successivi Les Amours Imaginaires (2010) e Laurence Anyways (2012), entrambi nella selezione di Un Certain Regard. Per la prima volta in quattro anni, Dolan lascia i territori familiari della Croisette per tentare il salto di qualità su un altro dei lidi cinematografici più famosi al mondo: la 70esima Mostra del Cinema di Venezia.

Regista più giovane della storia a entrare in concorso al Lido – nemmeno Roman Polanski (ventinove anni), Marco Bellocchio (ventotto) o Emir Kusturica (ventisette) ne eguagliano il primato – il cineasta monrealese porta in competizione una pellicola che rompe gli schemi con la cinematografia precedente, guadagnandosi il plauso del pubblico (dieci minuti di standing ovation alla prima veneziana) e critica (con l’assegnazione del FIPRESCI della stampa internazionale). 

C’è chi avrebbe voluto vederlo brandire il Leone d’Oro, infine assegnato a Sacro GRA di Gianfranco Rosi, ma a prescindere dai riconoscimenti attribuiti dalla giuria di Bernardo BertolucciTom à la ferme resta senza dubbio uno dei titoli più amati e attesi dell’ultima Mostra. Forte di un citazionismo evidente e al tempo stesso ben dissimulato, che attinge alla cinematografia di Hitchcock e Kubrick per rielaborarla in chiave personale, il thriller psicologico basato sull’omonima piéce del drammaturgo franco-canadese Michel Marc Bouchard scava con incisività nelle dinamiche relazionali e sessuali sullo sfondo di un inquietante Quebec rurale.

Letto da molti critici come una riflessione sulle opposte polarità di città e campagna, e dunque, banalmente, sullo scontro socio-culturale tra il modernismo della vita urbana e il primitivismo della routine agreste, Tom à la ferme rivela tuttavia un interesse quasi esclusivo per la rappresentazione degli aspetti più ferini e violenti della periferia franco-canadese. Abituato ad ambientare i propri film tra le vie conosciute di Montréal, Dolan abbandona i territori familiari della città natale per esplorare gli spazi desolati e ostili della campagna quebecchese, teatro di quel perturbante freudiano che nell’etimologia originale del termine tedesco unheimlich segnala appunto la mancanza di casa, la familiarità che diventa inquietudine. 

Memorie cariche di angoscia e segreti latenti si affastellano negli spazi deserti e alienanti della fattoria, dove lo spettro del figlio minore aleggia incessantemente, e il potere dell’edipico materno s’impone condizionando ogni forma di contatto tra i personaggi (fino all’alterazione completa degli equilibri con l’intrusione del secondo “femminino” nella casa). Simbolismi numerici e culturali – la frecciata franco-canadese all’imperialismo americano con il brano conclusivo Tired of America di Rufus Wainwright – affiorano sulla superficie di un quadro filmico perennemente instabile, che non desidera offrire allo spettatore alcun appiglio a cui aggrapparsi.

Una regia straniante, concepita per mantenere lo spettatore in un costante stato di tensione – drammatica e sessuale – procede per svelamenti tardivi e disturbanti (la presentazione di Francis, in una sequenza à la Psycho), panoramiche ripetutamente minacciose, e un montaggio (curato dallo stesso Dolan) che sfrutta l’espediente dello stacco ellittico per generare un senso di spaesamento temporale e la conseguente sospensione di un già fragile regime di realtà, collocato nel limbo schizofrenico tra follia e auto-coscienza.

“C’est vrais”, dichiara Tom a Sarah (Evelyne Brochu), presunta fidanzata di Guillaume, attribuendo lo statuto del reale ad un microcosmo imbevuto invece di paranoia, repressione e ipocrisia. E “Les vrais affaires” è d’altronde il nome del pub dove Tom – in una sequenza che sembra richiamare in modo fin troppo esplicito Shining di Kubrick – scoprirà finalmente la verità su Francis, quel segreto inconfessabile che ne ha esposto ed esacerbato la brutalità, e che può essere soltanto accennato e mai interamente mostrato nell’ultimo, sconvolgente fotogramma del film.

Terreno comune di riflessione tanto per Dolan che per Bouchard (entrambi co-sceneggiatori), l’identità sessuale dei protagonisti, e di Francis in modo particolare (il più sfaccettato ed enigmatico dei personaggi), resta palpabile ma mai veramente esplicitata, secondo la logica della suspense hitchcockiana dominante in tutta la pellicola (grazie anche agli archi bermanniani delle musiche di Gabriel Yared). La tensione (omo)erotica tra Francis e Tom, quasi insopportabile nella scena dello “strangolamento consenziente”, è solo uno dei molteplici sintomi di una pellicola che ambisce a raccontare – ed è qui che Dolan ritorna su sentieri precedentemente battuti – l’ambiguità e la non-normatività delle inclinazioni sessuali, la reversibilità dei soggetti sessuali/ti incarnata dal numero 69, ben visibile sulla facciata della fattoria fin dalle prime sequenze.

L’influenza teatrale del dramma di Bouchard agisce solo limitatamente sulla concezione del quadro e degli spazi (tuttavia evidente nella magnifica sequenza del tango e nell’orchestrazione degli ambienti attigui), e si manifesta piuttosto nella predilezione di Dolan per l’oralità laddove il visivo potrebbe risultare ridondante o superfluo. Il sesso, verbalizzato e mai mostrato (come il personaggio di Guillaume, poco più di un fantasma), impatta sulla fantasia dello spettatore con forza maggiore, e così anche il racconto rivelatore del barista alla fine del film. Gli abusi perpetrati da Francis e colti attraverso l’occhio di una macchina da presa sempre presente, anche quando sceglie volontariamente il “distacco” del totale, non sono tuttavia meno potenti, e il ricorso a immagini di natura violenta (il grano che “taglia come un rasoio”) e di ferinità apocalittica (il corpo intollerabile del vitello senza vita) contribuiscono a rafforzare un senso di disagio che resta attaccato alla spettatore anche a film concluso, specialmente dopo la brusca (ma efficacissima) interruzione del finale.

Il primo piano, cifra stilistica dominante del cinema dolaniano, viene qui utilizzato con voluta parsimonia, convogliando in una delle scene più intense del film gli sforzi congiunti della teoria deleuziana – il volto come immagine-affezione, lastra di proiezione della pura emozione – e degli scritti balasziani, che al piano ravvicinato associano l’idea della dislocazione spazio-temporale e dunque, nuovamente, un senso di perturbante difficile da scacciare. E i richiami al cinema hitchcockiano, nella forma e nel contenuto (il campo di grano di Intrigo Internazionale, l’alternanza orizzontale-verticale degli edifici della fattoria, l’edipico di Psycho), non ledono ma al contrario rafforzano l’espressività di un’opera estremamente personale, con la quale Dolan realizza una metamorfosi volutamente  radicale, e perfettamente riuscita, del proprio cinema.

Concluso con Laurence Anyways (ad oggi, forse, il suo capolavoro) il trittico di formazione generazionale e sessuale inaugurato nel 2009 da J’ai tué ma mère, Dolan cambia registro, accogliendo con successo la sfida di un genere inedito e abbandonando gli stilemi ricorrenti della sua filmografia (su tutti, l’integrazione tra musica, immagine e montaggio) pur senza sacrificarne lo spirito essenzialmente post-moderno, né tanto meno la firma autoriale. “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine/ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi/chi non cambia la marcia/chi non rischia”, scriveva Martha Medeiros (o, come erroneamente si crede, Pablo Neruda), e ad appena ventiquattro anni, con quattro film all’attivo, tre festival in poco più di un mese (Venezia, TIFF e ora FNC – Festival du Nouveau Cinéma) e un progetto già in cantiere, Xavier Dolan non sembra avere nessuna voglia di far morire lentamente la sua creatività.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 4 voti.
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alexmn 9/10
Upuaut 9/10

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forever007 (ha votato 7 questo film) alle 16:57 del 26 luglio 2016 ha scritto:

Peccato per la parte finale che rovina l'intero film