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8/10

The Tree Of Life regia di Terrence Malick

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi e Alessandro M. Naboni

Premessa: In occasione dell'assegnazione della Palma d'Oro 2011 a The Tree of Life Storia dei Film partecipa ai festeggiamenti con una doppia recensione. Il nostro modo per celebrare un evento speciale assegnando l'onere e l'onore di affrontare il film non a uno, ma a due dei nostri migliori recensori, Fulvia Massimi e Alessandro M. Naboni.

Adulto e infelice, Jack ripercorre gli anni dell'infanzia, dalla nascita all'abbandono della casa natia, rintracciando nella severa educazione impartitagli dal padre e nella remissività della madre l'origine del proprio male di vivere. Il viaggio eziologico dentro di sé lo porterà oltre le barriere del tempo e dello spazio, agli albori della creazione stessa.

 

Alessandro M.Naboni

Malick è Malick. Non si può raccontarlo, è un’esperienza filmica da sentire direttamente sulla propria pelle.

Si inizia con la necessaria citazione di Giobbe (38:4,7), rappresentazione biblica della contraddizione tra il giusto che soffre senza colpa e il malvagio che invece se la vive bene. Come la sua fede (in Dio) è messa a dura prova dalla perdita dei figli, di tutti i propri beni e poi con la sofferenza della malattia, così anche per Brad Pitt e famiglia in un parallelismo magnificamente laico. Secondo la lezione di Giobbe, scevra da preconcetti religiosi, l’operato divino non va giudicato con le categorie dell’umano, risulterebbe incomprensibile-al-limite-dell’irrazionale. Allo stesso modo Malick non può essere analizzato con i soli strumenti della critica cinematografica, sarebbe limitante e incompleto. Perché il suo cinema è da sempre larger than life, guarda più avanti/oltre/in profondità rispetto alla maggior parte dei registi contemporanei e non solo.

Il mondo è una beffa, per avere successo non dovete essere troppo buoni.

Perfetta sintesi del metodo educativo di Mr. O’Brien/Pitt, padre (father) autoritario che non vuole essere chiamato papà (dad), niente di strano perché siamo nel Midwest anni ‘50. Lavoro duro e metodico, rispetto per le persone, disciplina e ordine nella famiglia mantenuto con un pugno di ferro che nasconde amore. A testa alta contro le difficoltà e le disgrazie che il ‘destino’ può gettargli addosso senza ritegno, senza che se le meriti. La sua espressione corrucciata e determinata è quella di chi sa che non può cedere un attimo – non dire mai non ce la faccio – se non vuole essere schiacciato, basta poco perché tutto crolli, basta un’erbaccia estirpata male perché il prato inizi a rovinarsi.

Poi la grazia ultraterrena e l’amore sconfinato della signora O’Brien/Jessica Chastain, giovane mamma che cresce i figli giocando con loro, complice paziente e affettuosa di scherzi e momenti di libertà dall’oppressiva mano paterna. Una debole? Tutt’altro, in lei è nascosta una grandissima forza, quella che gli permette di vivere accanto ad un marito scomodo donando necessari/preziosi momenti di serenità.

Tre figli. Jack (Sean Penn da grande, Hunter McCracken da bambino) è il maggiore su cui il padre fa ricadere il suo essere, la sua eredità. Onori ma soprattutto oneri di un’impegnativa primogenitura. In lui si scontra e si concentra la dicotomia di una vita, le sue contraddizioni: grazia spirituale e natura violenta, madre e padre. Inconciliabili poli di una crescita che non può non segnarti e destabilizzarti a lungo termine, quando la disillusione e i dubbi dell’età adulta tornano a boomerang. Jack è il nostro personale Virgilio attraverso la storia dell’universo e della mente di Malick. La particolarità della sua vita è il riflesso di quanto avviene nel cosmo, in un legame sottile ma presente. Uno stesso continuum in cui l’esistenza umana è solo una piccola parte del tutto. Epico intimismo.

Il facile riferimento ad Aronofsky stona, era un film sbagliato nonostante la magnificenza visionaria delle immagini. Malick va oltre, elabora il complesso concetto dell’albero della vita, allo stesso modo parte integrante di molte religione e del più ateo darwinismo. Agli effetti visivi, il maestro Douglas Trumbull (2001: Odissea nell spazio, Blade Runner) e il supervisore Dan Glass (tutti i film dei Wachowski) hanno collaborato con il regista texano per ricreare i momenti pià primordiali-caotici-misteriosi della storia dell’universo. La formazione del cosmo 14 miliardi di anni fa, la nascita della terra, le prime forme di vita, l’era dei dinosauri, fino ad un salto in un futuro remoto a esplorare l’universo tra miliardi di anni quando i pochi superstiti sulla terra lotteranno per sopravvivere a un sole diventato ormai nana bianca. La sfida, vinta, è stata quella di ricreare un aspetto visivo che s’integrasse armoniosamente con la poesia e la naturalezza dell’estetica malickiana, evitando il ricorso eccessivo e stonato alla CGI. Ed è qui che forse Malick pecca in lirismo, con un dilungarsi in splendide scene da National Geographic che fanno perdere quel necessario contatto con la storia. Ma son solo dettagli.

Stupenda la fotografia a luce naturale di Emmanuel Lubetzki, con quella luce morbida che avvolge ogni cosa di una magia senza tempo, con contrasti delicati e dosati per dare consistenza alle immagini senza caricarle troppo. Poesia per immagini. Su tutte la nascita del bambino.

La musica di Alexandre Desplat è un innato fluire di note che scorrono come l’acqua, senza tempo e giustamente lontane da banalità (per il tema trattato) new age. Musica che si alterna alla potenza del silenzio, in una successione che esalta l’una e l’altro. Completano l’opera di grandi compositori come Smetana, Berlioz e Preisner. L’elenco dei meritevoli sarebbe lungo. Un’ultima menzione per i tre figli O’Brien, splendidi attori non professionisti: Hunter McCracken è la perfetta incarnazione di pensieri, azioni e parole dello Sean Penn in cui crescerà.

Malick è uno di quei pochi registi che hanno una luce particolare dentro, quelli che sanno portarti dentro il loro film, rapirti il cuore-prima-che-la-mente. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Leopardi avrebbe forse trovato in The Tree of Life un altro infinito in cui abbandonarsi totalmente. Il linguaggio di Malick è unico, viscerale e misterioso. Per questo il suo elevato interrogarsi sulla vita, sull’universo e sul concetto di fede e divinità acquista credibilità e forza, si carica di una profondità di pensiero fatta di una personale, autentica e mai pretestuosa ricerca, sempre in bilico tra scienza e spiritualità. La sua è la via della grazia, in un mondo che si sta spostando verso l’inferno il più velocemente possibile. Al suo quinto film in quasi quarant’anni, Malick realizza il capolavoro di una carriera kubrickiana nei tempi e, in parte, nei modi. Meritata Palma d’oro a Cannes 2011.

Se non sai amare la vita ti scivolerà via. E ho detto tutto.

 

Fulvia Massimi

Accolto a Cannes tra fischi e applausi (ma la critica lo pone tra i favoriti nella corsa alla Palma d'oro), The Tree of Life, quinto lungometraggio di Terrence Malick, non conosce mezze misure: di fronte alla maestosità dell'opera più sperimentale del regista texano - noto alle cronache più per l'eccessiva quanto leggendaria riservatezza che non per il valore (inestimabile) del suo cinema - si può rimanere amareggiati, delusi, certamente (con)turbati, ma non indifferenti.

Il ritorno di Malick alle scene dopo vent'anni di inspiegabile (e inspiegata) assenza ha impresso una svolta sensibile al suo cinema, avviato - prima con La sottile linea rossa e poi con il recente The New World - verso una rarefazione che raggiunge con The Tree of Life i suoi risultati più consistenti.

La voce-over, dominante del racconto in tutti i suoi film, perde la consistenza narrativa degli esordi (il sublime Badlands - La rabbia giovanee I giorni del cielo) per segmentarsi e spezzarsi, dando corpo ai pensieri dei diversi personaggi in una sorta di poetico flusso di coscienza joyceano: i dialoghi diegetici, ridotti al minimo e spesso a malapena udibili, hanno il solo scopo di portare avanti una narrazione quasi assente, fatta di impressioni e immagini di disarmante bellezza, accompagnate nel loro danzare dalle musiche incorporee ed evanescenti di Alexandre Desplat.

Quello di Malick è un cinema di purezza assoluta, carico di una poesia e di un lirismo che non ha precedenti né uguali nel panorama americano, entro cui si colloca più per filiazione storica che non per comunione di intenti. Ed è proprio dell'epica americana che il regista si fa portavoce con la sua, seppur esigua, filmografia: uno sguardo che, attraverso le due grandi guerre (I giorni del cielo, La sottile linea rossa) e il clima post-bellico degli anni '50 (La rabbia giovane), ripercorre la nascita di un popolo, di un Paese, arrivando a toccarne le origini (la ricerca e la scoperta delle Americhe di The New World) ed infine a superarle.

Con The Tree of Life Malick torna alle radici non soltanto dell'universo ma anche del proprio cinema, riallacciandosi all'atmosfera rurale e provinciale dell'America anni '50 già delineata ne La rabbia giovane (qui con riferimenti autobiografici: Waco, in Texas, è la sua città natale) e affrontando, per la prima volta, un'incursione nella realtà contemporanea nonché in quella primordiale. Rievocando gli echi kubrickiani di 2001: odissea nello spazio, Malick fa del viaggio di Jack (Sean Penn, poco più di un'apparizione) non un semplice percorso a ritroso nel passato famigliare ma una vera e propria allegoria del grande miracolo della vita. Jack, come David Bowman, percorre interspazi siderali e terrestri giungendo infine alle soglie del mondo conosciuto e dall'utero materno (forse evocato dalle misteriose immagini in apertura e chiusura di film) ancora più in là, in una natura rigogliosa e preistorica abitata da creature mitiche, inclini ad una violenza più sopita di quella delle scimmie Moonwatcher.

Ma lo Star Child kubrickiano, simbolo astrale dell'Uomo Nuovo, non resta sospeso nell'Universo e fuori dal mondo terrestre, ne viene al contrario catapultato, gettato dentro la vita dai dolori del parto, tra le gioie e i tormenti dell'essere bambino: i primi passi, la gelosia per l'amore materno (uguale per tutti i figli a parole ma diverso nei fatti), la sconcertante bellezza delle cose, abbracciate da uno sguardo vergine e non ancora corrotto dall'ambizione e dal senso di inadeguatezza (sentimenti che porteranno il dispotico padre, Mr. O'Brien, a inficiare la magnificenza del creato, non apprezzandone i doni).

Immagini sconvolgenti e maestose del ribollire magmatico della terra si affiancano alla potenza delle acque e al mistero di una vita mitocondriale, in un turbinio silenzioso che è in fondo spettacolare celebrazione di quella Natura che Malick eleva a vera protagonista dei propri film. Una Natura "indifferente di fronte alla follia degli uomini" (Mereghetti) in cui la macchina da presa, svuotata di presenza materica, si muove come l'occhio di un dio immanente, danzando al ritmo di una musica interiore e, a volte, di un silenzio carico di respiro.

Il fuoco, elemento (anti)catartico ricorrente in tutti e quattro i film precedenti (la scena dell'incendio è forse una delle più memorabili sia de La rabbia giovane che de I giorni del cielo), lascia il posto al reuma deleuziano, cifra stilistica del muto francese: l'acqua, dunque, come segno, elemento grammaticale di un cinema che alla concretezza materica della pellicola cerca di infondere la spiritualità del movimento liquido. Spiritualità di cui Malick, distaccato cantore della violenza umana, pervade ciascuna delle proprie opere.

Il Walden di Thoreau si congiunge all'epica americana e famigliare di Franzen, in cui le "correzioni" di un padre frustrato finiscono col trasformare l'esistenza dei tre figli adulti in un calvario di repressioni ed infelicità: The Tree of Life porta a compimento il progetto di universalità a lungo ricercato da Malick ed esplorato nella sua cinematografia più recente. La violenza del Padre, recepita dai figli e trasformata in nuova violenza (nel corpo e nel pensiero), diventa l'orizzonte fisico entro cui collocare il metafisico: nei pensieri del giovane Jack riecheggiano domande esistenziali che interrogano un'entità superiore, assente e crudele verso coloro che le rendono omaggio ("Dov'eri tu? Hai lasciato morire un ragazzo. Permetti che tutto accada e non fai niente. Perchè dovrei essere buono se non lo sei tu?"), mentre in quelli della Madre (Jessica Chastain, bellezza eterea i cui colori ben si adattano al cinema puro di Malick) l'Amore è l'unica ragione di vita: alla via della natura, ostile e matrigna (Natura e Dio sembrano coincidere in una fusione panica e profondamente pagana), preferisce la via della grazia.

Costruito per intermittenze ed ellissi (il complesso lavoro di montaggio ha richiesto l'apporto di ben cinque montatori), il film di Malick è un saggio vibrante e complesso del suo stesso cinema, anti-classico e (specialmente negli ultimi dieci anni) anti-narrativo, fondato su valori sensoriali tattili ed olfattivi oltre che visivo-uditivi. Un cinema che respira attraverso lo schermo e, pulsando, vive, sovvertendo le regole convenzionali della messa in scena: la macchina da presa, sempre presente eppure appena percepibile, che si abbandona a movimenti arditi (primissimi piani e particolari che non lasciano tregua alla figura umana) e angolazioni inconsuete (contreplongèe, rovesciamenti), a volte sfuggendo alla vista così velocemente da provocare un'improvvisa vertigine.

Raccontare per immagini è la sintesi forse più scontata ma efficace del credo di Malick che al narrare non lascia mai soccombere il vedere. Ed è nella stupefacente fotografia di Emmanuel Lubezki (sua anche la cinematografia in luce naturale di The New World) che tale credo si esplica: una cura maniacale per la costruzione dell'immagine, paragonabile sì a quella di altri statunitensi dalla filmografia ridotta ma di grandissimo rilievo (si veda David Fincher) ma inclusa in un cinema che "non assomiglia a quello di nessun altro". Un cinema dell'universale che, con The Tree of Life (l'albero della vita del titolo è una gigantesca quercia di Smithville, Texas), riesce infine a cogliere il senso ultimo dell'umanità, percorrendone la Storia tra mondo terreno ed ultraterreno (il finale lascia libero spazio ad interpretazioni in chiave tanto religiosa che più strettamente psicologica). Un cinema che è anzitutto esperienza del cinema senza eguali.

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Voto degli utenti: 8,1/10 in media su 12 voti.

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hayleystark alle 7:21 del 27 maggio 2011 ha scritto:

Quale onore (senza onere)! Una piacevole sorpresa La grandezza di questo film (e di tutto il cinema di Malick) è tale da non poter essere racchiusa né tantomeno esaurita dalle parole di uno solo: grazie Alessandro per la tua magnifica recensione, quasi un tributo ad un regista eccezionale, oltre che un'ottima occasione di confronto su un film dalle suggestioni inesauribili.

Marco_Biasio alle 19:09 del 27 maggio 2011 ha scritto:

Strepitoso duetto. Spero di vedere il film a presto, ma nel frattempo mi accontento della doppia recensione

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 22:18 del 27 maggio 2011 ha scritto:

concordo con fulvia, decisamente onore senza onere

malick merita questo e altro..uno dei pochi miti veri rimasti nel cinema dei giorni d'oggi.

ho letto con piacere la tua recensione perchè sono presenti tanti spunti interessanti per approfondire tematiche a me lontane (ahimè) come tipo di formazione..davvero complimenti

chissà qunado un altro film 'meriterà' una doppia recensione

hayleystark alle 23:27 del 27 maggio 2011 ha scritto:

Si dovrebbe fare più spesso, quest'anno ci sono stati molti "meritevoli" (e si spera ce ne siano ancora in futuro). Certo, aspettare Malick è improponibile, se non si sapesse che ha già un progetto in cantiere si rischierebbe di attendere anni.. La tua apertura con Giobbe mi ha veramente rincuorato: scrivendo in una specie di furore mistico mi ero completamente scordata di uno dei dettagli più importanti! Suona ripetitivo ma questa faccenda della doppia recensione mi ha veramente sorpreso, è stata una bellissima iniziativa Non mi metto a farti altri complimenti se no sembra una ruffianeria gratuita ma in tema di spunti interessanti la tua recensione non ha proprio nulla da invidiare

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 10:57 del 30 maggio 2011 ha scritto:

per malick il furore mistico nella scrittura è necessario

senza aspettare lui, il prossimo potrebbe essere sorrentino!! peccato dover aspettare tanto..mannaggia!

hayleystark alle 11:02 del 30 maggio 2011 ha scritto:

Giusto in questi giorni sto facendo una full immersion sorrentiniana e c'è trepidazione nell'aria! Suvvia, fingiamo che ottobre non sia poi così lontano..

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 11:18 del 30 maggio 2011 ha scritto:

sarebbe più semplice se nell'attesa non ci fossero solo lanterne verdi, maghetti vari et similia.

hayleystark alle 13:46 del 30 maggio 2011 ha scritto:

Mi hai praticamente letto nel pensiero. xD E non dimentichiamoci il "cine-ombrellone", prima o poi ne salterà fuori uno..

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 9:56 del 31 maggio 2011 ha scritto:

tra l'altro sembra che malick dopo il film top secret girato qualche mese fa (con affleck, mcadams, bardem, ecc) e di cui non si sa niente e il doc per imax, stia preparando qualcos'altro per fine estate-inizio autunno. non sono abituato ad un malick così prolifico

hayleystark alle 11:03 del 31 maggio 2011 ha scritto:

Sta recuperando il tempo perduto! xD Speriamo che l'essere prolifico non diventi sinonimo di scarsa qualità (anche se, "conoscendolo", sarebbe impossibile). Se nel frattempo riuscisse anche a trasformare Ben Affleck in un buon attore si confermerebbe uno dei più grandi del nostro tempo

dalvans (ha votato 7 questo film) alle 11:51 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Discreto

Insomma...

hayleystark alle 18:41 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

RE: Discreto

Un piccolo sforzo di concettualizzazione in più non farebbe male, specialmente per un film che non merita di essere liquidato con un semplice "insomma". Per quello, alla fine, ci stanno le tanto detestabili "stelline". Poi, come si suol dire, ognuno ha i suoi gusti...

Marco_Biasio alle 19:08 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

RE: RE: Discreto

Fulvia, è chiedergli troppo. Stiamo in silenzio e godiamo dei suoi infallibili giudizi.

hayleystark alle 19:32 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Ma no dai, trovo questa situazione estremamente divertente nella sua inutilità. A livello di pura dialettica non porta assolutamente nulla e questo mi dispiace, più che altro perché è il confronto fra idee che porta avanti il sito e che ci permette di "conoscerci" meglio, anche se virtualmente, però da lì a lasciarmi infastidire dalla cosa ce ne vuole..

dalvans (ha votato 7 questo film) alle 19:47 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Per Marco Biasio

Continua a fare lo spiritoso che ti riesce bene... i miei giudizi non sono infallibili, bensì personali e come tali legittimi come gli altri

Cas (ha votato 9 questo film) alle 22:01 del 23 dicembre 2011 ha scritto:

Splendida (doppia) chiave di lettura per un film-esperienza totale. Amo la poetica di Malick, The Tree of Life è qualcosa di sublime (ho trovato incredibili le sequenze di vita domestica che ritraggono i giochi con i bambini, dotate di una sensibilità che toglie il fiato). C'è da perdersi nell'estetica immaginifica di questo film... Anche se The New World rimane un apice indiscusso, per quanto mi riguarda.

tramblogy alle 10:33 del 13 febbraio 2012 ha scritto:

Orribile!!da mal di testa....