The Tree Of Life regia di Terrence Malick
DrammaticoPremessa: In occasione dell'assegnazione della Palma d'Oro 2011 a The Tree of Life Storia dei Film partecipa ai festeggiamenti con una doppia recensione. Il nostro modo per celebrare un evento speciale assegnando l'onere e l'onore di affrontare il film non a uno, ma a due dei nostri migliori recensori, Fulvia Massimi e Alessandro M. Naboni.
Adulto e infelice, Jack ripercorre gli anni dell'infanzia, dalla nascita all'abbandono della casa natia, rintracciando nella severa educazione impartitagli dal padre e nella remissività della madre l'origine del proprio male di vivere. Il viaggio eziologico dentro di sé lo porterà oltre le barriere del tempo e dello spazio, agli albori della creazione stessa.
Alessandro M.Naboni
Malick è Malick. Non si può raccontarlo, è un’esperienza filmica da sentire direttamente sulla propria pelle.
Si inizia con la necessaria citazione di Giobbe (38:4,7), rappresentazione biblica della contraddizione tra il giusto che soffre senza colpa e il malvagio che invece se la vive bene. Come la sua fede (in Dio) è messa a dura prova dalla perdita dei figli, di tutti i propri beni e poi con la sofferenza della malattia, così anche per Brad Pitt e famiglia in un parallelismo magnificamente laico. Secondo la lezione di Giobbe, scevra da preconcetti religiosi, l’operato divino non va giudicato con le categorie dell’umano, risulterebbe incomprensibile-al-limite-dell’irrazionale. Allo stesso modo Malick non può essere analizzato con i soli strumenti della critica cinematografica, sarebbe limitante e incompleto. Perché il suo cinema è da sempre larger than life, guarda più avanti/oltre/in profondità rispetto alla maggior parte dei registi contemporanei e non solo.
Il mondo è una beffa, per avere successo non dovete essere troppo buoni.
Perfetta sintesi del metodo educativo di Mr. O’Brien/Pitt, padre (father) autoritario che non vuole essere chiamato papà (dad), niente di strano perché siamo nel Midwest anni ‘50. Lavoro duro e metodico, rispetto per le persone, disciplina e ordine nella famiglia mantenuto con un pugno di ferro che nasconde amore. A testa alta contro le difficoltà e le disgrazie che il ‘destino’ può gettargli addosso senza ritegno, senza che se le meriti. La sua espressione corrucciata e determinata è quella di chi sa che non può cedere un attimo – non dire mai non ce la faccio – se non vuole essere schiacciato, basta poco perché tutto crolli, basta un’erbaccia estirpata male perché il prato inizi a rovinarsi.
Poi la grazia ultraterrena e l’amore sconfinato della signora O’Brien/Jessica Chastain, giovane mamma che cresce i figli giocando con loro, complice paziente e affettuosa di scherzi e momenti di libertà dall’oppressiva mano paterna. Una debole? Tutt’altro, in lei è nascosta una grandissima forza, quella che gli permette di vivere accanto ad un marito scomodo donando necessari/preziosi momenti di serenità.
Tre figli. Jack (Sean Penn da grande, Hunter McCracken da bambino) è il maggiore su cui il padre fa ricadere il suo essere, la sua eredità. Onori ma soprattutto oneri di un’impegnativa primogenitura. In lui si scontra e si concentra la dicotomia di una vita, le sue contraddizioni: grazia spirituale e natura violenta, madre e padre. Inconciliabili poli di una crescita che non può non segnarti e destabilizzarti a lungo termine, quando la disillusione e i dubbi dell’età adulta tornano a boomerang. Jack è il nostro personale Virgilio attraverso la storia dell’universo e della mente di Malick. La particolarità della sua vita è il riflesso di quanto avviene nel cosmo, in un legame sottile ma presente. Uno stesso continuum in cui l’esistenza umana è solo una piccola parte del tutto. Epico intimismo.
Il facile riferimento ad Aronofsky stona, era un film sbagliato nonostante la magnificenza visionaria delle immagini. Malick va oltre, elabora il complesso concetto dell’albero della vita, allo stesso modo parte integrante di molte religione e del più ateo darwinismo. Agli effetti visivi, il maestro Douglas Trumbull (2001: Odissea nell spazio, Blade Runner) e il supervisore Dan Glass (tutti i film dei Wachowski) hanno collaborato con il regista texano per ricreare i momenti pià primordiali-caotici-misteriosi della storia dell’universo. La formazione del cosmo 14 miliardi di anni fa, la nascita della terra, le prime forme di vita, l’era dei dinosauri, fino ad un salto in un futuro remoto a esplorare l’universo tra miliardi di anni quando i pochi superstiti sulla terra lotteranno per sopravvivere a un sole diventato ormai nana bianca. La sfida, vinta, è stata quella di ricreare un aspetto visivo che s’integrasse armoniosamente con la poesia e la naturalezza dell’estetica malickiana, evitando il ricorso eccessivo e stonato alla CGI. Ed è qui che forse Malick pecca in lirismo, con un dilungarsi in splendide scene da National Geographic che fanno perdere quel necessario contatto con la storia. Ma son solo dettagli.
Stupenda la fotografia a luce naturale di Emmanuel Lubetzki, con quella luce morbida che avvolge ogni cosa di una magia senza tempo, con contrasti delicati e dosati per dare consistenza alle immagini senza caricarle troppo. Poesia per immagini. Su tutte la nascita del bambino.
La musica di Alexandre Desplat è un innato fluire di note che scorrono come l’acqua, senza tempo e giustamente lontane da banalità (per il tema trattato) new age. Musica che si alterna alla potenza del silenzio, in una successione che esalta l’una e l’altro. Completano l’opera di grandi compositori come Smetana, Berlioz e Preisner. L’elenco dei meritevoli sarebbe lungo. Un’ultima menzione per i tre figli O’Brien, splendidi attori non professionisti: Hunter McCracken è la perfetta incarnazione di pensieri, azioni e parole dello Sean Penn in cui crescerà.
Malick è uno di quei pochi registi che hanno una luce particolare dentro, quelli che sanno portarti dentro il loro film, rapirti il cuore-prima-che-la-mente. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Leopardi avrebbe forse trovato in The Tree of Life un altro infinito in cui abbandonarsi totalmente. Il linguaggio di Malick è unico, viscerale e misterioso. Per questo il suo elevato interrogarsi sulla vita, sull’universo e sul concetto di fede e divinità acquista credibilità e forza, si carica di una profondità di pensiero fatta di una personale, autentica e mai pretestuosa ricerca, sempre in bilico tra scienza e spiritualità. La sua è la via della grazia, in un mondo che si sta spostando verso l’inferno il più velocemente possibile. Al suo quinto film in quasi quarant’anni, Malick realizza il capolavoro di una carriera kubrickiana nei tempi e, in parte, nei modi. Meritata Palma d’oro a Cannes 2011.
Se non sai amare la vita ti scivolerà via. E ho detto tutto.
Fulvia Massimi
Accolto a Cannes tra fischi e applausi (ma la critica lo pone tra i favoriti nella corsa alla Palma d'oro), The Tree of Life, quinto lungometraggio di Terrence Malick, non conosce mezze misure: di fronte alla maestosità dell'opera più sperimentale del regista texano - noto alle cronache più per l'eccessiva quanto leggendaria riservatezza che non per il valore (inestimabile) del suo cinema - si può rimanere amareggiati, delusi, certamente (con)turbati, ma non indifferenti.
Il ritorno di Malick alle scene dopo vent'anni di inspiegabile (e inspiegata) assenza ha impresso una svolta sensibile al suo cinema, avviato - prima con La sottile linea rossa e poi con il recente The New World - verso una rarefazione che raggiunge con The Tree of Life i suoi risultati più consistenti.
La voce-over, dominante del racconto in tutti i suoi film, perde la consistenza narrativa degli esordi (il sublime Badlands - La rabbia giovanee I giorni del cielo) per segmentarsi e spezzarsi, dando corpo ai pensieri dei diversi personaggi in una sorta di poetico flusso di coscienza joyceano: i dialoghi diegetici, ridotti al minimo e spesso a malapena udibili, hanno il solo scopo di portare avanti una narrazione quasi assente, fatta di impressioni e immagini di disarmante bellezza, accompagnate nel loro danzare dalle musiche incorporee ed evanescenti di Alexandre Desplat.
Quello di Malick è un cinema di purezza assoluta, carico di una poesia e di un lirismo che non ha precedenti né uguali nel panorama americano, entro cui si colloca più per filiazione storica che non per comunione di intenti. Ed è proprio dell'epica americana che il regista si fa portavoce con la sua, seppur esigua, filmografia: uno sguardo che, attraverso le due grandi guerre (I giorni del cielo, La sottile linea rossa) e il clima post-bellico degli anni '50 (La rabbia giovane), ripercorre la nascita di un popolo, di un Paese, arrivando a toccarne le origini (la ricerca e la scoperta delle Americhe di The New World) ed infine a superarle.
Con The Tree of Life Malick torna alle radici non soltanto dell'universo ma anche del proprio cinema, riallacciandosi all'atmosfera rurale e provinciale dell'America anni '50 già delineata ne La rabbia giovane (qui con riferimenti autobiografici: Waco, in Texas, è la sua città natale) e affrontando, per la prima volta, un'incursione nella realtà contemporanea nonché in quella primordiale. Rievocando gli echi kubrickiani di 2001: odissea nello spazio, Malick fa del viaggio di Jack (Sean Penn, poco più di un'apparizione) non un semplice percorso a ritroso nel passato famigliare ma una vera e propria allegoria del grande miracolo della vita. Jack, come David Bowman, percorre interspazi siderali e terrestri giungendo infine alle soglie del mondo conosciuto e dall'utero materno (forse evocato dalle misteriose immagini in apertura e chiusura di film) ancora più in là, in una natura rigogliosa e preistorica abitata da creature mitiche, inclini ad una violenza più sopita di quella delle scimmie Moonwatcher.
Ma lo Star Child kubrickiano, simbolo astrale dell'Uomo Nuovo, non resta sospeso nell'Universo e fuori dal mondo terrestre, ne viene al contrario catapultato, gettato dentro la vita dai dolori del parto, tra le gioie e i tormenti dell'essere bambino: i primi passi, la gelosia per l'amore materno (uguale per tutti i figli a parole ma diverso nei fatti), la sconcertante bellezza delle cose, abbracciate da uno sguardo vergine e non ancora corrotto dall'ambizione e dal senso di inadeguatezza (sentimenti che porteranno il dispotico padre, Mr. O'Brien, a inficiare la magnificenza del creato, non apprezzandone i doni).
Immagini sconvolgenti e maestose del ribollire magmatico della terra si affiancano alla potenza delle acque e al mistero di una vita mitocondriale, in un turbinio silenzioso che è in fondo spettacolare celebrazione di quella Natura che Malick eleva a vera protagonista dei propri film. Una Natura "indifferente di fronte alla follia degli uomini" (Mereghetti) in cui la macchina da presa, svuotata di presenza materica, si muove come l'occhio di un dio immanente, danzando al ritmo di una musica interiore e, a volte, di un silenzio carico di respiro.
Il fuoco, elemento (anti)catartico ricorrente in tutti e quattro i film precedenti (la scena dell'incendio è forse una delle più memorabili sia de La rabbia giovane che de I giorni del cielo), lascia il posto al reuma deleuziano, cifra stilistica del muto francese: l'acqua, dunque, come segno, elemento grammaticale di un cinema che alla concretezza materica della pellicola cerca di infondere la spiritualità del movimento liquido. Spiritualità di cui Malick, distaccato cantore della violenza umana, pervade ciascuna delle proprie opere.
Il Walden di Thoreau si congiunge all'epica americana e famigliare di Franzen, in cui le "correzioni" di un padre frustrato finiscono col trasformare l'esistenza dei tre figli adulti in un calvario di repressioni ed infelicità: The Tree of Life porta a compimento il progetto di universalità a lungo ricercato da Malick ed esplorato nella sua cinematografia più recente. La violenza del Padre, recepita dai figli e trasformata in nuova violenza (nel corpo e nel pensiero), diventa l'orizzonte fisico entro cui collocare il metafisico: nei pensieri del giovane Jack riecheggiano domande esistenziali che interrogano un'entità superiore, assente e crudele verso coloro che le rendono omaggio ("Dov'eri tu? Hai lasciato morire un ragazzo. Permetti che tutto accada e non fai niente. Perchè dovrei essere buono se non lo sei tu?"), mentre in quelli della Madre (Jessica Chastain, bellezza eterea i cui colori ben si adattano al cinema puro di Malick) l'Amore è l'unica ragione di vita: alla via della natura, ostile e matrigna (Natura e Dio sembrano coincidere in una fusione panica e profondamente pagana), preferisce la via della grazia.
Costruito per intermittenze ed ellissi (il complesso lavoro di montaggio ha richiesto l'apporto di ben cinque montatori), il film di Malick è un saggio vibrante e complesso del suo stesso cinema, anti-classico e (specialmente negli ultimi dieci anni) anti-narrativo, fondato su valori sensoriali tattili ed olfattivi oltre che visivo-uditivi. Un cinema che respira attraverso lo schermo e, pulsando, vive, sovvertendo le regole convenzionali della messa in scena: la macchina da presa, sempre presente eppure appena percepibile, che si abbandona a movimenti arditi (primissimi piani e particolari che non lasciano tregua alla figura umana) e angolazioni inconsuete (contreplongèe, rovesciamenti), a volte sfuggendo alla vista così velocemente da provocare un'improvvisa vertigine.
Raccontare per immagini è la sintesi forse più scontata ma efficace del credo di Malick che al narrare non lascia mai soccombere il vedere. Ed è nella stupefacente fotografia di Emmanuel Lubezki (sua anche la cinematografia in luce naturale di The New World) che tale credo si esplica: una cura maniacale per la costruzione dell'immagine, paragonabile sì a quella di altri statunitensi dalla filmografia ridotta ma di grandissimo rilievo (si veda David Fincher) ma inclusa in un cinema che "non assomiglia a quello di nessun altro". Un cinema dell'universale che, con The Tree of Life (l'albero della vita del titolo è una gigantesca quercia di Smithville, Texas), riesce infine a cogliere il senso ultimo dell'umanità, percorrendone la Storia tra mondo terreno ed ultraterreno (il finale lascia libero spazio ad interpretazioni in chiave tanto religiosa che più strettamente psicologica). Un cinema che è anzitutto esperienza del cinema senza eguali.
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