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8/10

Lost in Translation regia di Sofia Coppola

Drammatico
recensione di Dmitrij Palagi

Bob è un attore di successo al termine della propria carriera, giunto in Giappone per girare uno spot pubblicitario. Charlotte è una giovane laureata in filosofia che dorme nello stesso albergo di Tokyo, dove è arrivata per fare compagnia al marito fotografo. Entrambi americani si incrociano durante le loro notti insonni, superando la distanza generazionale con la comune crisi esistenziale, solo apparentemente legata al senso di estraniazione rispetto al Paese orientale. Ne nascerà un'amicizia intensa, piena di spunti ironici e provata dalla crisi di entrambi con i rispettivi coniugi. Solo apparentemente la classica storia d'amore extraconiugale. Non interessa sapere se i due finiranno con il consumare la rispettiva attrazione. Quello che tiene legati allo schermo è la spontaneità dei rapporti che si sviluppano attorno ai due statunitensi in crisi.

Crisi dell’individuo nell’età post moderna? Già visto. Rapporto tra società giapponese contemporanea – o almeno una sua parte giovanile – e l’occidente? Già visto. Rapporto extraconiugale, seppur platonico, tra diverse generazioni? Già visto. Crisi di mezza età o di mezza età e qualcosa? Già visto, oltretutto in Italia se ne è anche abusato fino alla nausea.

Si potrebbe continuare per qualche altra riga ma il senso è centrare il punto a cui molti si attaccano per definire sopravvalutata la seconda opera di Sofia Coppola, passaggio di mezzo della trilogia sulla giovinezza inquieta, tra Il giardino delle vergini suicide (1999) e Marie Antoinette (2006). Il punto è che se si parla dell’uomo, in ogni sua forma, si finisce per dire cose comunque già dette. Restando in termini astratti, ovvio. Così, salvo nuovi messia e vecchi cialtroni rivestiti a festa, quello che un film (così come un libro) può comunicare sull’essere umano non sarà mai inedito. Non conta più quanto particolare è l’interrogativo, conta come lo poni, con quali parole, con quali immagini, con quali suoni.

Così, al di là del sedere in primo piano di Scarlett Johansson, che apre il film deliziando il pubblico maschile e parte di quello femminile, ci si ritrova fin dall’inizio parte della storia. Non vedrete Tokyo per quella che è, ma attraverso gli occhi dei protagonisti. Allo stesso modo ascolterete i suoni e la musica con le loro orecchie, trascinando gli oggetti nella memoria assieme ai vari personaggi. Ne sarete parte integrante nella percezione della città, che in realtà è un non luogo perfetto per la commedia messa in scena. Una commedia che non ricerca le risate gratuite e neanche quelle scomposte. Al massimo un sorriso molto accentuato e un lieve sbuffo, comunque dal sapore amaro.

L’uomo al di fuori del proprio contesto si rende conto di quanto è reale la propria consistenza, ritrovandosi smarrito in un mondo a lui alieno perché alieno a sé stesso. L’identità di un certo modo di vivere occidentale non è sufficiente a rendere le persone autonome (sì lo so, già visto anche questo) davanti agli altri. Il giocattolo funziona solo secondo certe regole. Se togliete l’alimentazione la calcolatrice smetterà di funzionare e ve ne farete ben poco di un tastierino con schermo vuoto incorporato. Così una città piena di cartelloni pubblicitari della più selvaggia era della globalizzazione non è che in apparenza identica a tutti gli altri mercati del pianeta. Resistono le tradizioni e le assurde reinterpretazioni di stilemi stranieri assimilati in modo troppo rapido. Per adeguarsi a qualcosa di nuovo bisognerebbe esistere. Altrimenti ci si renderà semplicemente conto delle proprie carenze. Così due persone, indipendentemente dall’età, scopriranno l’assenza di un senso al tutto.

Vero punto di forza è la recitazione di Murray, redivivo in quello che ha anche definito il miglior film in cui abbia mai recitato. Sofia Coppola non a caso ha ammesso che avrebbe rinunciato al film, pur tenendovi moltissimo, se Bill avesse rifiutato la parte. In fondo si trattava di un ruolo non troppo lontano dalla realtà, con un attore di successo in crisi e lontano da casa. Il film è stato oltretutto girato in sequenza, così da rendere reale il progressivo conoscersi tra i due “primi” attori. Così come reale è stata la difficoltà (anche linguistica) di affrontare, con budget non elevato, un Paese così diverso.

Ottimo risulta il lavoro della fotografia di Lance Acord, capace di provocare in maniera esemplare le sensibilità dello spettatore occidentale, con suggestioni rese perfette dall’uso della luce soprattutto negli esterni diurni. Funzione bene anche la scenografia, affidata prima ad Anne Ross e poi passata nelle mani di K.K. Barrett (a cui si deve il futuristico strip club e gli interni delle abitazioni). A completare la parte più riuscita del film (quella più strettamente visiva) la costumista Nancy Steiner, che riesce a superare la plausibilità, convincendo definitivamente lo spettatore che il film fa qualcosa di più che narrare una storia.

Meno convincente la parte musicale, funzionale ma non particolarmente entusiasmante.

Il tutto, seppure con Murray come centro gravitazionale, manovrato da una capacità di regia peculiare che Sofia Coppola dimostra di avere, a differenze di molti altri registi occidentali a lei coetanei. Si passa su diversi registri espressivi con leggerezza, senza mai perdere di vista quell’unica trama da cui non ci si distoglie per un minuto, senza però annoiare. Ci si convince che il mondo è tutto lì, intorno a quell’incontro, a quella presa di coscienza della propria malinconica fase, a quel Giappone cui la regista è molto legata. Un fim d’autore che esce dai confini dei generi ed acquista personalità.

Resta il dubbio della sopravvalutazione. Ma al termine della proiezione chiedetevi se non abbiate imparato qualcosa di nuovo, anche su voi stessi. Nulla di nuovo? Può  però darsi che abbiate trovato il modo di mettere a fuoco un aspetto della nostra società, senza bisogno di particolari effetti scenografici (se non quelli narrativi).

Parlare di amore senza bisogno di sesso. Parlare di società senza bisogno di pianti strazianti e commoventi passaggi strappalacrime. Parlare con il silenzio. Per fare questo occorrono doti preziose

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 12 voti.

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Marco_Biasio alle 18:38 del 14 agosto 2009 ha scritto:

Bravissimo, Dmitrij! La regia di Sofia Coppola mi piace, ma oltre "Il giardino delle vergini suicide" non sono ancora andato. Rimedierò!

fedeee (ha votato 8 questo film) alle 11:14 del 29 agosto 2009 ha scritto:

molto bella la recensione!La Coppola come regista a me piace tantissimo, infatti ho visto tutto di lei eheh.

Sono daccordo su quanto è stato scritto, talmente è particolare il modo in cui viene percepita la città che il mio prof. di storia dell'architettura ce lo proiettò!

dalvans (ha votato 6 questo film) alle 12:14 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Sufficiente

Nulla di più

Cas (ha votato 9 questo film) alle 23:51 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

film incantevole, in tutto

Peasyfloyd (ha votato 9 questo film) alle 23:55 del 7 agosto 2012 ha scritto:

le 5 cose (in ordine sparso) che mi hanno deliziato di più di questo film:

1) le musiche (eccezionali. Il picco quando parte Somewhere dei My Bloody Valentines)

2) i colori (cromatismi urbani eccezionali che ricordano i finestrini del De Niro di Taxi Driver)

3) la regia della Coppola (la freschezza della quasi esordiente che in quest'occasione le azzecca tutte, riuscendo a dire tantissime cose talvolta anche in maniera involontaria)

4) il giappone americanizzato (in questo senso ho percepito solo il fatto che l'alienazione non trasparisse solo dai due americani "sperduti" ma dall'anima di un popolo evaporata?)

5) Scarlett Johansson e Bill Murray (immensi. Perfetti. Niente da aggiungere)