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8/10

La Fuga di Martha regia di Sean Durkin

Drammatico
recensione di Alessandro Giovannini

Martha (Elizabeth Olsen) chiama la sorella che non vede nè sente da due anni, pregandola di venirla a prendere: è fuggita da una comunità autarchica agricola localizzata in una campagna imprecisata dello stato di New York, nella quale ha vissuto troncando ogni contatto col mondo esterno. Cosa l'ha spinta alla fuga? Che esperienze ha vissuto? Che traumi ha subito? Per la sorella Lucy (Sarah Paulson), che se ne fa carico col marito Ted (Hugh Dancy) nella sua ampia casa sul lago nel Connecticut, l'impresa di dipanare il mistero e di prendersi cura di lei sarà tutt'altro che semplice.

La fuga di Martha si inserisce in un filone tutto americano (e rigorosamente indie) di cinema avente per oggetto lo studio dei culti e delle sette utopico-anarchico-fanatiche a tema laico o religioso che si sviluppano con facilità negli Stati Uniti, raccogliendo ragazzi sbandati, tardi Hippie e profeti del nulla in "famiglie" dai dubbi connotati ideologici. In un percorso che unisce idealmente film molto diversi nello stile ma simili nelle tematiche, dal Thriller/horror Red State di Kevin Smith alla docu-fiction Jesus Camp di Heidi Ewing e Rachel Grady, passando per L'ultimo esorcismo di Daniel Stamm, La fuga di Martha ricorre ad uno stile scarno e naturalistico per illustrare questa strana realtà, dividendo il film in due nuclei spazio-temporali cui si passa con montaggio alternato per tutta la durata della pellicola.

Le parti riguardanti la convivenza fra le sorelle sono caratterizzate da una fotografia più luminosa e da spazi più ampi, anche nel senso di inquadrature meno ravvicinate. Le sezioni riguardanti l'esperienza di Martha nella comunità (che la ribattezza Marcy May/Marlene) sono più cupe e connotate fotograficamente da primissimi piani e dettagli. La costruzione è ossimorica se si pensa che la vita in comunità è caratterizzata da spazi aperti e quella con Lucy da interni abitativi, il che conferisce al film una paurosa dote destabilizzante. I perni su cui poggia sono due: recitazione e fotografia. La prima è spontanea e convincente da parte dell'intero cast, con figure di spicco fra i comprimari (il capo-comunità Patrick, interpretato da John Hawkes, il quale ha un che di Vincent Gallo sia nell'aspetto sia nello sguardo lucidamente folle) ed una mimetica partecipazione del cast principale.

La fotografia di Jody Lee Lipes fa un uso sapiente delle ombre, saturando spesso l'inquadratura di oscurità piuttosto che di nitore, e virando i colori dei paesaggi campestri così da renderli nient'affatto idilliaci e rassicuranti, bensì sporchi, autunnali, mortiferi. Un gran lavoro è stato fatto anche sul sound design: gli ambienti silenziati che fanno rimbombare gemiti e grida si alternano ad altri più cacofonici (utensili stridenti, natura dissonante, spari raggelanti), mentre la colonna sonora si compone di tracce minimaliste di elettronica mista a folk acustico, con un risultato finale inquietante al punto giusto: il disagio è la sensazione che la pellicola riesce a trasmettere, insinuandolo, nella mente dello spettatore. Il finale incerto non rende giustizia ad un film che promette di essere fra i migliori film in uscita nelle sale italiane di quest'anno (ma che avrà ben poco pubblico).

Lo sforzo del regista esordiente Durkin (alle spalle un solo cortometraggio, su un tema simile, passato al Sundance) di realizzare un'opera notevolmente originale nello stile ed intrigante sul piano contenutistico (il conflitto natura/cultura; le conseguenze psichiche a lungo termine di esperienze traumatiche, i rigurgiti di idee estreme nel più democratico dei paesi occidentali) sarà presumibilmente ignorato da un pubblico troppo impegnato a gustarsi gli ultimi colorati e scoppiettanti blockbuster (The Avengers, Dark Shadows...) made in Hollywood. Chi è disposto a fare i conti con un tema insolito (almeno per noi) trattato nei tempi e nei modi di un cinema di sperimentazione, ne trarrà invece gran giovamento intellettuale.

V Voti

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