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R Recensione

8/10

Stonewall regia di Roland Emmerich

Drammatico
recensione di Erika Sdravato

Ci sono momenti che segnano la Storia, senza i quali i diritti che oggi sembrano scontati semplicemente non esisterebbero, come la marcia di Selma, la Declaretion of Sentiments a Seneca Falls, i moti di Stonewall.

Quando anche tuo padre non accetta ciò che sei. Quando ti ritrovi a dormire in dodici in una stanza, chi atrofizzato sul pavimento chi spalmato su una poltroncina sfondata chi rannicchiato quasi con privilegio in un angolo del materasso. Quando a lezione gli insegnanti ti propinano video (dis)educativi sull'omosessualità fantasiosamente interpretata come malattia. Quando trascorri la notte con un uomo che, come te, non può acquistare sigarette perchè gay, ma combatte il sistema volantinando pacificamente. Quando balli in locali gestiti dalla mafia perchè sei diverso e non hai accesso ad altro divertimento notturno legale. Quando apri la borsa per tirarne fuori un mattone da scagliare contro la polizia e realizzi che questa è l'unica soluzione possibile a far capire che anche tu hai dei diritti. Quando arriva un momento nella storia in cui è necessario combattere contro il bigottismo, il perbenismo e il provincialismo per non essere considerato un criminale. Quando vivi nel 1969 e sei omosessuale. Emmerich, sostenitore attivo del movimento LGBT e dichiaratamente gay, conosciuto ai più come catastrofista regista tedesco di pellicole di grande successo commerciale (Independence Day, 1996; Godzilla, 1998; The Day After Tomorrow, 2004), cambia completamente rotta e sceglie di produrre e girare un film ispirato alle rivolte accadute nel Greenwich Village di New York che segneranno un passaggio indelebile per il Movimento di Liberazione Omofila. A distanza di due decenni dall'ultima pellicola che aveva trattato l'argomento (la decisione di attirare maggiormente l'attenzione su questo tema era stata già presa nel 1995 da Finch, morto di Aids poco tempo dopo le riprese) e di quasi mezzo secolo dalla prima volta in cui i gay dissero basta, la società e l'industria cinematografica sentono l'urgenza di ricordare i grandi eroi d'azione senza volto che finirono per cambiare la storia a favore dell'accettazione della sessualità di chi ama persone dello stesso genere. La coralità: forse è questa caratteristica a rendere la pellicola quanto mai coinvolgente (soprattutto sul finale), a discapito di scene preconfenzionate, confessioni d'amore convenzionalmente lacrimose, dialoghi lividi di sentimentalismi irrisolti. Si diceva, la coralità appunto, individuabile nella coesione del cast (particolarmente partecipe e convinto del progetto) e nell'onesta comunione d'intenti del regista in accordo con la fotografia di Federer, tesa a ripristinare sul grande schermo la bellezza la spontaneità la ribellione la grana storica proprie della fine degli epocali anni '60 americani. L'indiscutibile presenza magnetica di Jonathan Rhys Meyers (il politicizzato Trevor Nichols, nel film) segna con evidenza la continua ascesa di un attore che, scoperto da una talent scout della Warner Brothers quando era un senzatetto e si manteneva giocando a biliardo, ora può permettersi di guadagnarsi il titolo di miglior interprete maschile secondo Woody Allen. Bravi Jeremy Irvine e Jonny Beauchamp: il primo, innocente protagonista costretto ad abbandonare casa amata sorella e fienili dell'Indiana perchè scoperta la sua relazione con il quarterback della squadra liceale, dona il volto fin troppo bello e buono a Danny Winters; il secondo, controparte drammatica ed umana del personaggio principale, mostra tutta la sua determinazione a rendere il più possibile autentico ogni dettaglio del mondo gay del film, incarnando Ray/Ramona, leader della colorata gang di abusate ed emarginate prostitute che animeranno il nucleo nevralgico delle vicende. Tutto ciò che accade è in continuo bilico tra vero storico e finzione ricostruita ad hoc, in una commistione di personaggi realmente esistiti ed altri inventati da zero, a servizio di uno script che cerca di rendere giustizia e risonanza mediatica a fatti importanti per chiunque voglia rapportarsi in maniera consapevole civile e sensata con il resto della collettività (Carta Manden e successive docet). Stonewall, quindi, non è solo il locale corrotto in cui i gestori tentavano di avvelenare i ragazzi omosessuali vendendo drink allungati, ma anche il luogo in cui dapprima si condensa e poi trascende lo stereotipo dell'omosessualità. Stonewall sbatte in faccia, in maniera neanche esageratamente patinata, come anche l'ultimo e debole arrivato dalla periferia, Danny, possa subire un processo personale evolutivo e realizzare definitivamente quanto sia importante esserci nella Storia (propria e collettiva) e farlo capire agli altri a qualunque costo, passando da un atteggiamento remissivo ad uno feroce, indomito, vero, giusto, incontenibile, per molti illegittimo. Ma spirituale. Stonewall è ogni volta che bisogna imbracciare la propria coscienza di essere umano e rivendicarla, come un'arma, contro chi la viola la ostacola la calpesta la tradisce la sfrutta la ignora la snatura. Stonewall è anche quando non ti resta che intonare canzoncine sconce contro le autorità schierate in tenuta antisommossa. È quando vivi nel 2016 e sei etero o omosessuale e hai l'obbligo di sapere che ci sono state 10'000 persone che hanno dovuto rivendicare il più sacrosanto dei diritti dell'uomo: la libertà assoluta. Negata ancora in 77 Paesi nel mondo.

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