R Recensione

8/10

Room regia di Lenny Abrahamson

Drammatico
recensione di Eva Cabras

In un piccolo capanno nel giardino di Old Nick vive Joy, che da sette anni è tenuta prigioniera. Nel corso della sua reclusione è nato Jack, che adesso ha cinque anni ed è pronto per aiutare la madre nel suo piano di fuga verso la libertà.

A differenza del suo semplicissimo titolo, “Room” è un film complesso e stratificato, sia a livello narrativo che di significato. Il perno essenziale attorno a cui si snodano vicende e personaggi è il rapporto che lega madre e figlio, Joy e Jack,  imprigionati da cinque anni nel capanno di Old Nick. Quando Joy aveva 17 anni è stata, infatti, rapita e rinchiusa nella “stanza”, dove due anni dopo è nato il figlio. I due si muovono con una routine ormai consolidata all’interno delle spoglie quattro mura che costituiscono tutto il loro universo, sono completamente in simbiosi, ma arriva il momento in cui la donna non riesce più a sopportare la cattività e colui che ne è responsabile.

Il processo di liberazione dalla “stanza” non è facile o indolore, specialmente per Jack, che nella vita non ha mai visto altro che le mura e gli oggetti che lo circondano. Quando Joy tenta di spiegare al figlio che esiste tutto un mondo fuori dalla loro prigione, il piccolo entra in un corto circuito psicologico e si rinchiude nella negazione più assoluta, decretando la prima frattura tra lui e la madre. La fiducia ha la meglio sull’incredulità e pian piano Jack inizia a processare le nuove rivelazioni, appoggiando la mamma nel suo piano di fuga. Ecco che ci troviamo di fronte alla seconda, più profonda, frattura nel rapporto tra i due protagonisti, poiché l’uscita dalla “stanza” segna l’inizio di un devastante processo di adattamento, che entrambi affronteranno in modi profondamente diversi. Il bambino, inizialmente in stato di shock, inizia ben presto ad apprezzare tutte le nuove possibilità offerte dal mondo, mentre la madre, dopo la gioia della libertà, si trova a fronteggiare una situazione molto cambiata durante i suoi sette anni di lontananza. La consapevolezza del tempo perduto e delle opportunità ormai irrecuperabili, spinge Joy in uno stato di nervosismo e depressione, tanto profondo da raggiungere il picco con un tentativo di suicidio. La terza frattura nel rapporto madre/figlio sembrerebbe insanabile, ma, al contrario, rappresenta il proverbiale fondo dal quale poi inizia la risalita. Grazie al figlio, Joy riscopre il valore della libertà e assapora il mondo intorno a lei guardandolo come se fosse la prima volta.

Ciò che colpisce in questa complessa storia familiare è la totale mancanza di figure paterne. Soltanto il nuovo compagno della madre di Joy si dimostra proattivo e premuroso nei confronti dei due sopravvissuti, mentre i padri biologici hanno connotazioni che spaziano dal totalmente negativo al praticamente assente. Da un lato abbiamo infatti Old Nick, il sadico che ha rapito, stuprato e imprigionato Joy per quasi un decennio, ma dall’altro abbiamo il padre della ragazza, che non riesce più a rapportarsi con la figlia e tanto meno con il nipote. Il protagonista maschile, e forse protagonista assoluto di “Room” è comunque Jack, piccolo saggio dai capelli lunghi e voce narrante durante tutto il film. Il suo punto di vista diventa il fuoco narrativo ed emotivo che guidano la storia, sapientemente sceneggiata da Emma Donoghue, autrice dell’omonimo romanzo, e diretto da Lenny Abrahamson, già regista della piccola perla del 2014 “Frank”.

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