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8/10

The Woman Who Left regia di Lav Diaz

Drammatico
recensione di Alessandro Giovannini

Vittima di un errore giudiziario, Horacia viene scarcerata dopo 30 anni di prigionia, e si mette sulle tracce del figlio.

Era il 2007 quando Harry Tuttle sdoganava attraverso il suo blog l'espressione Contemporary Contemplative Cinema, per gli amici CCC. Da qualche anno a quella parte il cinema era stato invaso da uno stile nuovo, con registi misconosciuti saliti improvvisamente agli onori delle cronache per vittorie clamorose ai festival più prestigiosi. Uno di questi nomi è indubbiamente il filippino Lav Diaz, famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista), per la durata gargantuesca delle sue pellicole, che quest'anno si è aggiudicato il Leone D'Oro a Venezia con un film abbastanza contenuto per i suoi standard: 4 ore di cinema contemplativo ma con un'organizzazione narrativa abbastanza presente, sorattutto confronto ad alcuni lavori precedenti, come lo stesso From What Is Before, Pardo D'Oro a Locarno, capolavoro del CCC.

In The Woman Who Left, ancora una volta girato in B/N, Lav Diaz predilige l'ambientazione urbana, mettendo da parte la sua fascinazione per la giungla, topos della sua produzione, luogo magico e misterioso come per un altro noto esponente del genere, Apichatpong Weerasethakul. Stavolta i vagabondaggi della protagonista Horacia si svolgono per così dire nella giungla cittadina, in particolare nel sottobosco degli ultimi, degli intoccabili, dei subumani, degli invisibili, come una specie di Madre Teresa (che non a caso viene citata da un comunicato radio che ne annuncia il decesso). Siamo nel 1997, una stagione di caos nella quale il paese è attraversato da un'onda di sequestri a scopo di riscatto, sia di turisti che di indigeni. Le Filippine vengono al solito ritratte da Diaz come una terra martoriata dalla piaga della crudeltà umana: nessuno è al sicuro e il nemico, come sempre, non è facilmente identificabile. In questo contesto Horacia, condannata ingiustamente, viene scarcerata dopo 30 anni e, sola nella grande città, rintraccia la figlia ma non riesce a trovare il figlio, scomparso sembra per volontà propria. Da qui, la svolta: Horacia agisce in incognito, non rivela a nessuno della sua scarcerazione, va a vivere assieme agli ultimi della terra apparentemente spinta da propositi caritatevoli, ma con un piano segreto in serbo. Diaz si dimostra di nuovo un maestro nella caratterizzazione dei personaggi, che non cessano di svelare nuovi risvolti col passare delle ore, mettendo in luce tutta la propria complessità. Ciò denota un lavoro di scrittura ragionato e profondo, a volte non pervenuto in film in cui sarebbe più lecito aspettarselo. Si tratta, invero, di un Lav Diaz leggermente diverso dal passato: più asciutto nelle parentesi descrittive, più parlato, più vicino ai personaggi (meno campi lunghi e più campi medi, con addirittura qualche mezza figura, un grado di vicinanza insolita per l'autore), più incalzante nel montaggio: chi rimane estasiato dai suoi abituali piani-sequenza troverà poco pane per i suoi denti stavolta. Le consuete scene a camera fissa non mancano, e fra esse ce ne sono di meravigliose per forma e sostanza, vedasi la parentesi giocoso-canora tra Horacia e il travestito Hollanda, personalmente l'apice emozionale del film; tuttavia la narrazione procede relativamente spedita e, seppure la sceneggiatura non riservi chissà quali sorprese, si mantiene sufficientemente interessante per l'intera durata. Tecnicamente il film risulta pregevole, con il gusto non troppo geometrico per le inquadrautre da parte del regista, che stavolta infila anche numerose riprese fuori bolla e perfino qualche breve inserto a camera mobile. Tutti segnali di una sottile evoluzione stilistica di un autore che rimane comunque fedele a sè stesso e alla sua idea di cinema, pur contaminandola con qualche citazione mainstream (i riferimenti al musical americano e, nell'iconica inquadratura di chiusura, a un classico come Quarto potere).

Da vedere preferibilmente su grande schermo.

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