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9/10

From What Is Before regia di Lav Diaz

Drammatico
recensione di Stefano Santoli

Vita di un villaggio filippino nei primi anni '70.

La dimensione del mondo contadino, nella quale siamo calati nel film vincitore del Pardo d’Oro a Locarno 2014, è universale. La durata della pellicola (quasi sei ore) contribuisce a un’immersione totale in questa dimensione arcaica, atavica, a-storica. Un mondo che, allo spettatore occidentale, sembra collocarsi fuori dalla Storia comunemente intesa come evoluzione di eventi socio-politici in progressione. Nel mondo di From what is Before (titolo internazionale di quest’ultimo lavoro di Lav Diaz), quando la Storia interviene, è per violentare la dimensione atemporale del “barrio”, il villaggio in cui il film si svolge nella sua interezza. E, la Storia, appare sottoforma di un tentacolo della dittatura militare di Marcos: un regime che, all’epoca in cui il film si svolge (primi anni ‘70) si era appena instaurato nelle Filippine. Sarebbe durato sino al 1986. Spesse volte al cinema abbiamo visto in quali modi la brutalità della Storia venga a sconvolgere le vite degli umili: non da ultimo, nello splendido “L’uomo che verrà” di G. Diritti (sorta di filiazione de “L’albero degli zoccoli”, cui - sia pur alla lontana, scevro da qualsivoglia influenza fideistica - qualcosa deve anche Lav Diaz). Quasi mai, tuttavia, ci era stato concesso di penetrare nella vita quotidiana del mondo contadino alla maniera con cui ce lo permette Lav Diaz, punta di diamante di un cinema contemplativo contemporaneo che ci immerge in un mondo per ore, sino a farci perdere la cognizione del tempo narrativo. Lenti quadri fissi, per lo più piani-sequenza o long takes che al piano-sequenza tendono, in cui gli eventi si manifestano quasi sempre nella totalità di un campo lungo. Rarissimi, come in Hou Hsiao Hsien o Tsai Ming Liang, i primi piani. Per tre ore abbondanti, siamo chiamati ad assistere a frammenti di vita (che a volte - non sempre – si costituiscono in episodi, come nella prima macrosequenza in cui assistiamo ai riti di una guaritrice). I personaggi principali emergono molto gradatamente dal collettivo di fondo, nel quale siamo calati senza scorciatoie che consentano di abbreviare i tempi con i quali entrare in confidenza. Attraverso una assoluta contemplazione, pertanto, il regista annulla ogni impressione di ricostruzione, dando l’illusione che si tratti di cinema diretto (non può non venire in mente Rouch, o addirittura Flaherty). Eppure la ricostruzione è esibita. È l’autore stesso, in voce off, prima in apertura, poi in chiusura, a chiarirci che, se pure queste circostanze sono realmente avvenute, esse sono una memoria, una rievocazione (“Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”). In queste prime ore, alcuni eventi si spiegano o trovano aggiunte di senso attraverso scene che si vedranno più avanti; la coralità pacata di quello che fatichiamo a chiamare “racconto” prende man mano a svolgersi seguendo il filo di alcune trame principali, le quali, superata la soglia delle tre ore, vengono ad essere quasi d’improvviso catalizzate dall’irruzione della Storia. Ossia, dall’arrivo di una legione militare che si installa nei pressi del villaggio, arrivando a interferire violentemente con la sua stessa esistenza. Vari nodi si intrecciano, caricandosi adesso di suggestioni. A questo punto, il velo della semplice contemplazione si squarcia, e per lo spettatore avviene quasi un miracolo: anziché spossati dalla durata, siamo definitivamente catturati nell’universo cui sinora abbiamo semplicemente assistito, e dove solo dopo tre ore abbondanti iniziano a svolgersi, sia pur senza cambi di ritmo, eventi narrativi. Sentiamo di parteciparvi quasi in prima persona. Nessun film di durata convenzionale avrebbe potuto portare allo stesso effetto di compartecipazione.

Una potente allusione di senso - che va ad intrecciarsi con il motivo della Storia che violenta la naturalezza della vita di un villaggio contadino con i suoi riti e i suoi stenti - è il tema della verità. Diaz apre questioni di ordine etico di non poco conto. Un sacerdote, in nome di un’umana pietà, non ha il coraggio della verità: lo fa anche in nome dell’apparente modello morale di un “sacrificio” che vorrebbe illustrare ai suoi fedeli. Proprio con questo gesto, tuttavia, finirà suo malgrado per sconvolgere il personaggio di Tony. Quest’ultimo resterà vittima della violenza sconvolta di un altro personaggio, senza che ci sia concesso sapere in quanta parte la confessione di Tony sia frutto della sua propria fantasia. Il tema della menzogna quale nascondimento della verità apparentemente a fin di bene percorre sotterraneo la pellicola: è presente anche nel personaggio di Hakob, ragazzo cui è stata nascosta la verità sui propri genitori (in merito, gli interrogativi aperti da Diaz si avvicinano a quelli di un Kieslowski - a noi è venuto in mente “Decalogo 8. Non dire falsa testimonianza”). C’è chi ha intravisto nella pellicola di Diaz, se non proprio una condanna della passività, da parte delle classi subalterne prive di “coscienza di classe”, una rassegnata constatazione dell’impossibilità, per gli umili, di scuotersi e fronteggiare un cataclisma come quello che l’imposizione di un regime autoritario costituisce per la popolazione inerme. Come ci fosse modo di fronteggiare adeguatamente la violenza dei potenti. Come se fronteggiare l’autorità in nome di una diversa ideologia non generasse altra violenza. Invece, è piuttosto chiarissimo come Lav Diaz veda nei cataclismi della Storia, anzi probabilmente nella Storia stessa, una sventura senza rimedi efficaci, esattamente come di fronte a un cataclisma naturale (quale il tifone di “Death in the land of encantos”). È chiaro da molti segnali come lo stesso avvento delle grandi religioni (Islam e Cristianesimo) siano come le prime tracce di corruzione, da parte della civiltà occidentale, di una diversa dimensione originaria di questa popolazione. Sta proprio qui l’importanza forse maggiore del film, come probabilmente di tutto il cinema di Lav Diaz. Il suo collocarsi coscientemente fuori da qualsiasi prospettiva “occidentale” nei confronti della Storia. Diaz si ferma laddove un occidentale sarebbe portato a trarre conclusioni in termini politici, sociologici, se non proprio filosofici sul senso ultimo dell’esistenza. Proprio per questo Diaz non arriva alla rassegnazione, né tantomeno condanna la passività degli inermi: non c’è, in lui, alcuna concessione a qualsivoglia forma di pessimismo, una tentazione invece tipica nella nostra cultura, intrisa in fondo ancora di decadentismo.

Nessuno più lontano di Lav Diaz ad esempio da Bela Tarr, a cui potrebbe essere superficialmente avvicinato per analoga vocazione a un cinema di estrema intransigenza. Tante sono infatti le differenze con l’autore de “Il cavallo di Torino”, che contemplativo lo è sino a un certo punto, in verità molto poco. Anzitutto solo in Diaz c’è l’immensa discrezione della camera fissa. C’è poi totale assenza di musica (in Tarr, la musica etero diegetica è essenziale). Diaz non carica le proprie immagini: non s’impone, non impone alcuna propria visione con insistenza. La ricerca e insieme il rispetto della contemplazione appaiono davvero autentici e rigorosi. Il “cataclisma” di cui esplicitamente Diaz parla (“Questa storia è la memoria di un cataclisma”…) non è l’apocalisse indirettamente evocata da Tarr nel suo ultimo lavoro. In “From what is before” non c’è alcuna apocalisse: solo l’ineluttabilità degli eventi. Alla contemplazione va di pari passo la constatazione, amara ma non rassegnata, che la Storia può essere un cataclisma per i più umili. In particolar modo in un paese come le Filippine, che sin dal nome (il nome di un sovrano spagnolo) porta le stimmate di un’originaria violenza. Uno degli aspetti di Diaz che maggiormente colpisce è la lingua parlata. Il tagalog del titolo è lingua ufficiale delle Filippine, dove si parlano tuttavia un’ottantina fra lingue e dialetti. E la lingua che sentiamo nel film appare a tratti un ibrido fra diversi linguaggi, in cui evidenti sono gli influssi castigliani e inglesi. A volte vengono scambiate frasi in inglese, spesso quando uno dei dialoganti ha un ruolo istituzionale o magari è membro dell’esercito - con evidenti risvolti legati al ceto e quindi ai rapporti di forza sociali. Improvviso, proprio alla fine, un brevissimo ma inatteso slittamento di prospettiva. Al termine dell’ultima inquadratura, prima del buio dei titoli di coda, un personaggio sottoposto a supplizio da parte dell’esercito ha un sussulto, un guizzo vitale. Scuote, indomito e libero, il dorso. È solo un momento. Del tutto inatteso e stupefacente. Forse, un cenno di speranza. Uno spiraglio oltre il cataclisma.

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alejo90 (ha votato 9 questo film) alle 19:19 del 31 maggio 2017 ha scritto:

capolavoro