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7/10

Two Lovers and a Bear regia di Kim Nguyen

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

 Roman (Dane DeHaan) e Lucy (Tatiana Maslany) sono due anime perseguitate da un oscuro ma non dissimile passato. La loro storia d’amore, sbocciata nel gelo artico del Canada polare, è ostacolata dai fantasmi di una vita passata e da una possibile separazione futura. Pur di restare insieme, i due amanti del titolo si imbarcano allora in un viaggio spericolato e disperato verso il Sud, sfidando le leggi della natura e della razionalità umana. 

 “Winter is coming”. Nonostante la reticenza del cittadino medio québécois ad affrontare il tema spinoso della metereologia regionale (il termometro scende a capofitto da Halloween in poi), i programmatori del Festival du Nouveau Cinéma di Montreal non si lasciano intimidire dal motto di casa Stark e collocano in apertura di kermesse (il 5 ottobre 2016) l’ultima fatica del concittadino Kim Nguyen, Two Lovers and a Bear, racconto d’amor fou e viaggio ancor più folle tra le spianate gelide del Polo Nord.

Presentato in anteprima alla Quinzaine des realizateurs di Cannes 2016, Two Lovers and a Bear come già il candidato all’Oscar Rebelle dimostra l’abilità di Nguyen di trasformare il paesaggio naturale che fa da sfondo ai suoi film nel corrispettivo metaforico delle paure e tensioni umane sperimentate dai suoi personaggi. Ambientato nella minuscola cittadina di Apex in Nunavut—territorio inospitale ma carico di tradizione indigena spesso obliterata dalla storiografia del Canada coloniale—il film di Nguyen si relaziona infatti con eccentricità ad uno dei topoi più noti della cultura canadese: l’ostilità del Grande Nord.

Lo spazio sublime, insieme metafisico e apocalittico, del paesaggio artico si staglia contro la possibilità della sopravvivenza amorosa prima ancora che umana (una delle locandine internazionali offre in tal senso un clamoroso spoiler), e diventa teatro di un dramma romantico che attinge meno all’etnografia del documentario flahertyano (se non sai costruire un igloo che Dio ti aiuti) e piuttosto al senso del sovrannaturale che lega le diverse anime interculturali del cinema québecois ancor più che canadese. 

Orsi parlanti ma non digitalizzati, presenze eteree ma non reali (o viceversa), e frammenti di natura immanente/antropomorfizzata punteggiano l’odissea sui ghiacci dei due protagonisti fino al suo inevitabile epilogo, in una traiettoria instabile, narrativamente ed emotivamente altalenante. La miscela di generi cinematografici, indefinibile per lo stesso Nguyen, attraversa infatti indie romance e horror psicologico con punte di comicità auto-referenziale—in una delle scene chiave, Dehaan, intrappolato tra i ghiacci, si esibisce in una performance a cappella di Seven Nation Army dei White Stripes, richiamando per lo spettatore il dialogo iniziale del film appena dopo i titoli di coda.

Il risultato é senza dubbio affascinante, ma legato alla bellezza annichilente dei luoghi, colti con cristallina precisione dall’obiettivo grandangolare della macchina da presa, piuttosto che alla tenuta narrativa della sceneggiatura di Nguyen (basata su una story di Louis Grenier). Il tentativo di Nguyen di fondere romanticismo disperato e realismo magico é eclettico ma non interamente convincente, e lascia sullo sfondo sia la complessità che la sacralità indigena di quegli stessi luoghi di cui vorrebbe cogliere le profondità più spirituali. La presenza dell’Altro originario si resolve allora nell’uso ben congeniato delle musiche Inuti di Tanya Tagaq e The Tribe Called Red, e nella presenza mistica e a tratti inquietante dell’indigeno come Donatore proppiano. Ma ciò che resta infine di Two Lovers and a Bear non è tanto l’ultimo fotogramma pompeiano nella sua declinazione ibernata, quanto piuttosto la barzelletta ricorrente e troppo lunga che si spegne in un finale non proprio memorabile.

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