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R Recensione

7/10

Il Lercio regia di Jon S. Baird

Drammatico
recensione di Maria Eleonora C.Mollard

Bruce "Robbo" Robertson è un detective sociopatico che si diletta nel tramare contro i colleghi per appropriarsi del titolo d'ispettore. L'omicidio di un ragazzo e, la sua nomina a capo delle indagini, sembrano l'occasione ideale per mettersi in mostra davanti al suo superiore, ma l'ossessione per la promozione si dipanerà in una spirale di violenza e alienazione.

"Scotland. This nation brought the world television, the steam engine, golf, whisky, penicillin..."

Con questo pensiero esordisce sullo schermo il detective sergente Robbo/James McAvoy, con un misto di disprezzo e ironia, c'introduce ad Edimburgo dove più che lavorare fa abuso di potere, sniffa cocaina, ingurgita cibo spazzatura, frequenta prostitute e donne con una sessualità deviata, non privandosi di sterili giochi di potere, studiando il tallone d'Achille dei suoi compagni di lavoro per renderli pubblici al momento opportuno. Quello che dovrebbe essere un'indagine su un brutale omicidio, si trasforma in un viaggio febbricitante nelle abitudini malate del protagonista, contornate da scorribande e deliri tra lo squallido e il comico.

"Il buio è la mia casa". Più che la parabola discendente di un uomo, è la disamina di una persona apparentemente normale, quasi vincente e intoccabile per chi gli sta intorno, ma profondamente corrotta, lercia e nel pieno di una psicosi, a tratti allucinatoria, che ricorre alla violenza fisica e mentale, per colmare il vuoto logorante che si è formato dopo un evento traumatico nella sua vita privata. Avvicinandosi a un non scontato epilogo, Robert si sgretolerà davanti agli occhi indifferenti del mondo; umiliato e privato di qualsiasi rispetto dai spettatori esterni della sua vita. Il lercio non è l'opus magnum di Irvine Welsh, per chi avesse letto e apprezzato i suoi scritti e, di conseguenza quest'opera ben confezionata ha dei punti deboli che diventano divari incolmabili se s'insiste a paragonarlo a trasposizioni vincenti come Trainspotting. Jon S.Baird, al suo secondo lungometraggio, utilizza degli espedienti quasi psichedelici per fare delle digressioni temporali e dare spessore a un personaggio che, per quanto tormentato, potrebbe risultare piatto e incapace di creare una qualche empatia col pubblico. Interpretato da un buon cast che racchiude attori come Jim Broadbent, Eddie Marsan, Shirley Henderson, e in cui spicca inevitabilmente un validissimo James McAvoy che attinge a piene mani dalla sua esperienza televisiva nel primo e "debosciato" Shameless. Ciò che non convince del tutto della sceneggiatura scritta a quattro mani con Irvine Welsh, è l'assenza di quella spinta che avrebbe potuto trasformare il film in qualcosa di davvero grottesco, qualcosa di degno di una madcap come Robertson e, il suo senso di solitudine ed impotenza espressi così bene nelle ultime pagine del libro, tanto da rendere palpabile una sensazione così dilaniante come la solitudine, qui, si perde in un finale quasi privo di pathos in cui non possiamo neanche più aggrapparci alla volgarità e al cinismo del protagonista, ormai troppo lucido per le sue stesse fantasie reali e presunte, lasciandoci solo con un monito: (Don't ) Touch me, I'm Sick.

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