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R Recensione

5/10

Made in Ash regia di Iveta Grofova

Drammatico
recensione di Alessandro Giovannini

Dorota si trasferisce dal paesino natìo in Slovacchia, un conglmerato campagnolo senza niente da offrire, nella cittadina di Aš, in Repubblica Ceca, al confine con la Germania, per trovare impiego in una fabbrica tessile e cercare un futuro.

Girato con attori non professionisti, reclutati tra la gente del luogo, Il film attinge alla vita della stessa regista, protagonista di un analogo viaggio in cerca di fortuna (poi risoltosi in un nulla di fatto e nel ritorno a casa). Si resta innanzitutto colpiti dalla povertà estrema e dallo squallore degli ambienti, che destano qualche perplessità circa la presenza di questi paesi all'interno dell'UE e in particolar modo della Repubblica Ceca all'interno della CEE. In una città di confine fumosa, fredda e buia come una bolgia infernale, migliaia di vite passano alla ricerca di una minima prospettiva di sopravvivenza. In realtà il futuro di molte di queste ragazze è la prostituzione, oppure il matrimonio con qualche vecchio camionista frontaliere tedesco. Nessuna traccia di istituzioni, di interessamento governativo: solo una triste realtà dei fatti che, a quanto si evince, tutti conoscono ed accettano senza sperare di (o adoperarsi per) cambiare.

Il film non fa sconti a nessuno, nemmeno alle ragazze di cui la protagonista Dorota è emblema collettivo: la strada del mercimonio sessuale resta la più facile e veloce per avere soldi senza impegnarsi nella vita; ovviamente è una decisione non priva di conseguenze spiacevoli. Alcune vecchie donne che lavorano in fabbrica ammoniscono le ragazze a tal proposito, insistendo sull'importanza del lavoro come valore. Non soo ascoltate un po' per disperazione di queste ragazze abbandonate a loro stesse, un po' per la rassegnazione ad un destino ineluttabile che sembra accumunare questi popoli a quello giapponese. Se però Sion Sono apre le porte alla speranza nel suo ultimo, bellissimo The Land of Hope, qui la proverbiale luce in fondo al tunnel non si vede nemmeno col binocolo: queste vite miserevoli sono un semplice cul-de-sac, destinato a perpetrarsi.

Il film è girato bilanciando una forma di scrittura finzionale ed una tecnica di ripresa un po' sporca più vicina al documentario. Lento, silenzioso e cupissimo, è una marcia funebre a volte insostenbile per i tempi morti che inducono alla noia, l'atmosfera mortifera che lo pervade e l'ostinazione verso la documentazione dei lati più oscuri dell'esistenza. Spesso le inquadrature artificiosamente oppressive ed occuldenti risultano un fastidioso intralcio invece che uno strumento mimetico.

In tutto ciò, le scenografie (con inquietanti palazzoni sovietici decadenti) ed alcune intuizioni registiche (il ballo nella bettola tra le givani ragazze ed i vecchi e infermi avventori) regalano qualche momento suggestivo.

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