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R Recensione

5/10

Sta per piovere regia di Haider Rashid

Drammatico
recensione di Giulia Bramati

Said vive a Firenze con il fratello Amir e il padre Hamid, immigrato algerino giunto in Italia prima della nascita dei figli. Quando Hamid perde il lavoro, lo Stato Italiano nega alla famiglia il permesso di soggiorno, sollecitandola a lasciare il Paese entro quindici giorni.

Il problema delle seconde generazioni di immigrati in Italia è diventato uno dei temi principali di dibattito politico negli ultimi anni, a partire soprattutto dal 2002, quando il governo Berlusconi approvò la legge 189, detta “Legge Bossi-Fini”, sulla regolazione dei flussi di immigrazione. Questa retrograda legge prevede che un immigrato possa ottenere il permesso di soggiorno solo dopo aver stipulato un contratto di lavoro della durata minima di nove mesi e condanna il cittadino che dovesse aiutare un clandestino ad entrare illegalmente nel Paese ad una reclusione fino a tre anni. A questa regolamentazione, si aggiunge la crescente difficoltà di ottenere la cittadinanza italiana per chi, nonostante sia nato e cresciuto in Italia, è figlio di immigrati.

Haider Rashid, giovane regista fiorentino, ha deciso di denunciare questa situazione scrivendo e dirigendo il film “Sta per piovere”, con l'obiettivo di sensibilizzare e stimolare il pubblico italiano al cambiamento di queste leggi limitanti, il cui unico risultato è quello di aumentare la clandestinità. Protagonista del film è Said, figlio di immigrati algerini nato e cresciuto a Firenze, che ogni anno rinnova il permesso di soggiorno insieme al padre e al fratello; lo Stato riconosce alla famiglia il diritto di restare in Italia grazie al lavoro stabile di operaio del padre Hamid. Con l'avvento della crisi, l'industriale che gestisce l'azienda dove lavora Hamid fallisce e si uccide, provocando la chiusura della fabbrica. Rimasto senza lavoro, il padre perde anche il permesso di soggiorno ed è costretto dallo Stato Italiano a tornare in Algeria con i suoi figli. Said, che non vuole lasciare quello che considera il suo Paese, decide di intervenire, sia da un punto di vista legale – facendo ricorso in tribunale – sia da un punto di vista comunicativo – rivolgendosi a giornali e radio, per raccontare la sua storia.

Sebbene Rashid si sia fatto carico di questo nobile intento di denuncia politica e sociale, il risultato da un punto di vista tecnico e artistico è insoddisfacente: la narrazione non appassiona lo spettatore, i dialoghi sono densi di retorica, la recitazione è forzata; anche la fotografia non è ben riuscita: nei frequenti primi piani, si crea spesso un fastidioso gioco di fuoco/fuorifuoco.

Utilizzando la camera a mano e seguendo i movimenti del protagonista, il regista sembra compiere il tentativo di avvio di una contemporanea versione della teoria del “pedinamento” di Cesare Zavattini, senza risultare però convincente: manca quella capacità di avvicinare emotivamente lo spettatore ai protagonisti che era caratteristica della poetica neorealista.

Per sensibilizzare il pubblico delle sale cinematografiche italiane al tema dell'immigrazione sarebbe stato più efficace realizzare un documentario, come hanno fatto Giulio Cederna e Angelo Loy con “Una scuola italiana”, documentario che mostra il fenomeno delle seconde generazioni in modo sensibile e toccante, portando lo spettatore ad una seria riflessione sulla crudeltà delle attuali leggi e sulla necessità di cambiare la situazione.

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