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7/10

Promised Land regia di Gus Van Sant

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Sue Thomason (Frances McDormand) e Steve Butler (Matt Damon) lavorano per la Global Crosspower Solutions, una società multimiliardaria che acquista acri di terreno con risorse di gas naturale, sorvolando sull’impatto ecologico delle future trivellazioni. Giunti in una piccola cittadina rurale per portare a termine un affare, Sue e Steve devono fare i conti con l’opposizione di un ex-ingegnere (Hal Halbrook) e di un giovane ambientalista (John Krasinski). L’occasione servirà a Steve per aprire gli occhi sull’eticità del proprio operato.

Era dal 2002 che Gus Van Sant e Matt Damon non si vedevano insieme sul grande schermo. Dopo un sodalizio che li aveva legati per cinque anni, permettendo a Damon di vincere un Oscar per la miglior sceneggiatura originale (ex aequo con Ben Affleck) grazie allo script di Will Hunting – Genio ribelle, la liaison cinematografica tra i due si era conclusa con Gerry, agorafobico viaggio di distruzione nel deserto argentino.

Dopo dieci anni di “separazione”, la coppia torna a collaborare per la realizzazione di Promised Land, drama-thriller ecologista con ventate di sensibilità provinciale, presentato in concorso alla 63esima edizione della Berlinale. A firmare la sceneggiatura, basata su un soggetto di Dave Eggers, è appunto Matt Damon, affiancato alla scrittura dall’attore di The Office, John Krasinski, anche interprete (e suo rivale).

Grazie ad uno script che affianca denuncia ambientale e redenzione sociale, Van Sant torna alle qualità retoriche e decisamente mainstream che ne avevano caratterizzato la produzione dei primi anni 2000, allontanandosi dalle atmosfere raccolte e riflessive della sua trilogia “contemplativa” (Elephant, Last Days, Paranoid Park) – probabilmente la vetta più alta della sua carriera artistica -, così come dalla delicatezza melodrammatica di Restless – L’amore che resta.

Lungamente affascinato dalla figura dell’outsider vincitore e dalle sue battaglie tanto individuali (Will Hunting, Scoprendo Forrester) che collettive (Milk), Van Sant attua con Promised Land un deciso cambio di rotta, rileggendo l’attualissimo tema dello scontro tra grandi corporations e povera gente in tempo di crisi non già dalla prospettiva delle vittime, ma da quella dei carnefici. Sempre ammesso che tali si possano definire.

Nella loro devozione al mestiere, Steve Butler e Sue Thomason (splendida McDormand nella parte di “spalla” cinica e sarcastica) non riescono infatti a generare nello spettatore il prevedibile disprezzo richiesto dal ruolo. Per gli ingenui abitanti di McKinley (ma potrebbe essere Dish, Texas, o Lafayette, Louisiana, inquadrata dall’alto ogni città ha lo stesso aspetto da modellino) il nemico da fronteggiare, ed eventualmente da cacciare a forza di voti contrari, non è un’entità astratta, una multinazionale solo logo e niente volto, ma una coppia di venditori dalla faccia pulita, cordiale e apparentemente onesta.

Il cliché della class-action in difesa degli oppressi à la Erin Brokovich lascia allora il posto al racconto di ostracismo e graduale presa di coscienza dell’oppressore, che ritrova  le proprie radici rurali nel contatto con il microcosmo di provincia, senza più doversi travestire per “sembrare uno del posto”. La figura di Steve Butler esce dallo schema vansantiano soltanto in superficie, poiché grazie ad essa il regista coglie l’opportunità di raccontare una parte di sé: il ragazzo del Kentucky che fugge dalla terra natale per farvi infine ritorno, con una rappresentazione nostalgica e, perché no, ironica («Two hours outside any city looks like Kentucky») e volutamente stereotipica (tra “open-mic nights” e “gun’s shops”), del piccolo buco di provincia a cui continua ad appartenere nel profondo.

Il manager in completo elegante, che presenzia a riunioni d’affari snocciolando numeri e statistiche vincenti nell’incipit del film, scompare progressivamente per tornare ad incarnare il giovane “montanaro” educato secondo i valori familiari, e ovviamente nazionali, della giustizia e della sincerità radicale. ”Dimmi la verità e tutto ti sarà perdonato”: è in fondo questa la sola morale cui Steve possa infine pervenire, celebrata non sullo sfondo fotografico della devastazione eco-zoologica ma su quello, immancabile, della bandiera a stelle e strisce.

Travolta dall’afflato retorico delle sue conclusioni, la bella intuizione di Damon e Krasinski, la momentanea virata thrilleristica che inchioda e smaschera i biechi interessi aziendali, perde il proprio mordente, ripiegando su un finale che esalta nuovamente e senza sorprese i valori intrinseci alla democrazia americana, paladina della lotta alla menzogna in tutte le sue forme, peggio che mai se ai danni della comunità.

Ed è già nel titolo, saggiamente non tradotto per il mercato nostrano, che il senso del film di Van Sant si esplica in prima battuta. Perchè la “terra promessa” non è quella dei lotti acquistati a forza di raggiri e prezzi falsati, non è l’oasi che gli abitanti di McKinley sperano di poter raggiungere con il ricavato dei loro incauti investimenti. È la terra da preservare, da non svendere per non svendere se stessi, e a cui fare ritorno per sentirsi a casa: una terra senza prezzo, che nemmeno la disperazione e i “fuck you money” di questo mondo posso convincere a dare via.

“What’s your price?”, domanda la tag-line del film, dipingendo lo scenario di un’economia al collasso, dove tutto, o quasi, può essere comprato abusando delle debolezze altrui, ma in cui la vera lezione di vita è impartita da una ragazzina che vende limonata con encomiabile onestà. E fa quasi tenerezza, nella sua voluta ingenuità, il desiderio di Van Sant di farci credere nell’importanza delle “umili tamerici” di virgiliana memoria: l’amore, la famiglia, i figli, la libertà dalle pressioni di un lavoro che  ”è solo un lavoro”, perfino nel momento fatale della Crisi.

È d’altronde nella bellezza della semplicità che il cinema di Van Sant ha sempre trovato la sua massima forma d’espressione, nelle “piccole cose umili e silenziose” cui è avvezza la gente che non cerca l’inutile, ridondante grandiosità. E nonostante le facili ovvietà di sceneggiatura, anche Promised Land conserva la capacità di raccontare il reale, nella sua contingenza economica più immediata, con tenerezza e un senso di vibrante empatia, facendoci credere davvero, anche solo per un momento, che i soldi non facciano la felicità, e nemmeno la serenità.

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