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5/10

La foresta dei sogni regia di Gus Van Sant

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

Un uomo crede di aver smarrito ogni motivo per continuare a vivere e decide di porre fine ai suoi giorni recandosi nella misteriosa foresta di Aokigohara alle pendici del monte Fuji ma qui incontrerà presenze misteriose che cambieranno il suo sguardo sulla vita.

In Giappone esiste una foresta ai piedi del monte Fuji che si chiama Aokigahara. Se non conoscete questo nome forse è un buon segno, visto che è la meta preferita degli aspiranti suicidi. Da tutto il mondo, infatti, si recano in questa luogo misterioso per porre fine ai propri giorni. E' un ambiente pervaso da visioni macabre e miti magici. Inoltrandosi nella fitta vegetazione è possibile ritrovare nastri legati agli alberi che disegnano percorsi che gli stessi suicidi hanno lasciato dietro di sè per far ritrovare il proprio corpo. Ma questo non è tutto, le leggende raccontano della presenza di fantasmi, anime di uomini qui trapassati, che vagano senza pace. E' questa l'ambientazione che Gus Van Sant ha scelto per il suo ultimo film. Il protagonista è interpretato da Matthew McConaughey che dopo aver esplorato lo spazio profondo di Interstellar (2014) di Christopher Nolan scende negli abissi che si aprono nel confine tra la vita e la morte. E' uno uomo profondamente segnato dal traumatico rapporto con la moglie (Naomi Watts) che ha perduto la voglia di vivere e si inoltra nel regno oscuro di Aokigahara. Ma qui incontrerà una figura enigmatica (Ken Watanabe), un uomo che pur volendo uccidersi ha ancora la capacità di dire qualcosa sulla vita. Il regista decide di seguire fino in fondo le suggestioni metafisiche che la foresta di Aokigahara offre, costruendo un racconto che partendo dalle strutture del dramma di natura psicologica e relazionale si muove verso le forme della fiaba magica. Un percorso decisamente arduo in cui Gus Van Sant si confronta con tematiche già presenti nel suo cupissimo e dark L'amore che resta (2011), dove un'adolescente ossessionato dalla morte imparava a vivere proprio attraverso un'esperienza di morte. Ma mentre nel film precedente la cifra favolistica e quella drammatica si fondevano con grande efficacia qui il piano realista e quello magico non trovano un credibile equilibrio. E' indubbio che le presenze magiche possono svolgere il ruolo di simboli e di metafore di quanto nello smarrimento possa sfuggire all'umana comprensione (ne è un esempio l'angelo Clarence di La vita è meravigliosa (1946) di Frank Capra) ma necessitano di un'iconografia adeguata che alluda e suggestioni senza inficiare il piano di realtà in cui avviene la trasformazione del personaggio. Lo sforzo del cast degli attori non è sufficiente a riportare in equilibrio il rapporto tra essere umano e mondo magico finendo per restituire una sorta di mondo di mezzo. A testimoniare della visione fiabesca del regista anche la scelta di fotografare i suoi personaggi con un cortissima profondità di campo che spesso mette a fuoco solo gli occhi, lasciando fuori dal campo nitido ogni altro dettaglio, quasi a voler cogliere solo lo "specchio dell'anima" e consegnare il personaggio ad una una dimensione prevalentemente fantastica. Resta intatta la meraviglia per averci fatto conoscere un posto siffatto che illumina un ambito misterioso della mente umana. Quale forza vitale può spingere un uomo a compiere un viaggio tanto lungo per porre fine al viaggio della sua vita? Forse ha senso cercare la risposta in un luogo di confine tra vita e morte come la foresta di Aokigahara.

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