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10/10

Drugstore Cowboy regia di Gus Van Sant

Drammatico
recensione di Monia Raffi

Ci troviamo a Portland, Oregon, nei primi anni ’70. Un quartetto di tossicodipendenti formato da Bob Hughes (Matt Dillon), sua moglie Dianne (Kelly Lynch), l’amico Rick (James LeGros) e Nadine (Heather Graham), giovane fidanzata di quest’ultimo, ha escogitato un ingegnoso stratagemma per procurarsi droghe e farmaci di prima qualità: compie periodicamente furti nelle farmacie e negli ospedali, il gruppo viene più volte braccato, senza successo, da Gentry, un poliziotto della narcotici. La combriccola è schiava di innumerevoli superstizioni; Bob in particolare crede che parlare di cani o lasciare un cappello appoggiato sul letto siano presagi di sciagure e morte. A queste assurdità si ribella la piccola Nadine che, ingenua e inesperta di furti, non si è mai inserita totalmente nel gruppo. Una sera dopo un altro colpo in cui Nadine era stata rimproverata ancora una volta da Bob, il gruppo, ritornando a casa dopo esser uscito senza Nadine la trova morta di overdose accanto al letto; sfrattati dal motel in cui risiedono a causa di un congresso di sceriffi che aveva fatto una prenotazione per tutte le stanze del motel, tale prenotazione era antecedente alla loro, Bob e Dianne riescono miracolosamente a nascondere Nadine in un borsone, e a portare il suo cadavere in un bosco, dove Bob la seppellisce. Bob, in principio apparentemente indifferente alla morte della ragazza, si scopre cambiato a causa di questo avvenimento e decide, senza l’approvazione della moglie, di provare a disintossicarsi, iscrivendosi così ad un programma di recupero a base di metadone. In quest’occasione incontra un anziano prete tossicodipendente (William S. Burroughs), conosciuto da giovane, e instaura con lui una nuova amicizia. Bob, trovato un modesto lavoro, sembra impegnarsi seriamente nel tentativo di iniziare una nuova vita e uscire dalla droga; ma, una sera, due ragazzi, uno dei quali è David, una sua vecchia conoscenza ai tempi delle rapine, convinti che, nonostante tutto, lui continui a fare uso di sostanze stupefacenti, giungono in casa sua per rapinarlo. Non trovando nulla, decidono di sparargli, lasciandolo morente sul pavimento. L’intervento tempestivo dell’ambulanza riuscirà a salvarlo, ma Bob rifiuterà di fare al Gentry il nome del suo assalitore.

Costruito come una lunga prolessi, Drugstore Cowboy mostra il modo in cui è possibile affrontare un tema complesso come quello della droga senza intercedere nella trama con punti di vista personali e quindi sempre opinabili. Grazie al narratore interno Gus Van Sant ovvia al problema contraddittorio del “punto di vista” relegando al diretto protagonista di quella che è una storia vera, il compito di narrare la sua esperienza.

Il regista diventa il pittore della storia, il suo dovere è di portare in immagini un’esperienza, senza lasciare opinioni morali e non, all’interno della sua opera.

Siamo nei primi anni ’70 e una piccola banda di drogati, costruita come un nucleo familiare a cui fa capo Bob (Matt Dillon) scorrazza saccheggiando farmacie nell’Oregon; un periodo dove la droga non è ancora percepita con un sentore di desolazione come sarà negli anni a venire, ma è ancora intesa come un elemento di ribellione. Il cammeo dello scrittore William Burroughs, vuole proprio simboleggiare nella sua persona tutta un’epoca e una “cultura” underground dove anche l’eroina (lo scrittore impersona un prete eroinomane) non è ancora vista come uno spettro di morte.

Pur trovandocisi storicamente, i personaggi del film tuttavia non fanno parte di questa sottocultura; la droga per loro non è un’evasione dalla società ma una vera e propria scelta di vita, come lo è avere un lavoro e una famiglia; l’atto si compie per il puro piacere di vivere un momento di euforia che inizia con la rapina e finisce con la somministrazione della sostanza: proprio come dei cowboy eroi dei western essi sono dei fuorilegge che non vediamo come tali poiché la loro scelta di vita è avvertita come naturale e non come qualcosa che si pone all’infuori dell’esistenza stessa.

L’opera, essendo concepita a partire da un’esperienza reale, segue - com’è naturale che sia- un lungo climax ascendente che parte dai primi momenti di euforia, attraversa lo squallore della morte anonima per poi approdare ad un’ovvia redenzione da quello che, nato come piacere, diventa un circolo vizioso dove i soggetti si tramutano in oggetti del loro stesso divertimento.

Gus Van Sant organizza una messa in scena di grande efficacia, soprattutto nella scelta delle inquadrature ravvicinate a personaggi ed azioni, rassomigliando ad un chirurgo che viviseziona un corpo (l’esperienza) per poterlo mostrare dal suo interno.

Siamo quindi al cinema inteso come “microscopio” sul reale, il cui unico compito è mostrare ciò che ad occhio nudo non può essere visto; l’alone di freddezza che avvolge la pellicola altra non è che un debito estraniarsi da una vicenda che non appartiene né al regista né allo spettatore ed è, a mio avviso, un segno d’intangibile rispetto in primo luogo verso una storia personale che, come è giusto, appartiene prima di tutto al diretto interessato, e perché no, anche nei confronti del cinema che Gus Van Sant dimostra d’intendere come arte che ha in seno il grande pregio di poter mostrare la realtà senza voler ad ogni costo interpretarla.

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