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8/10

Un Posto al Sole regia di George Stevens

Drammatico
recensione di Gloria Paparella

George Eastman è un giovane squattrinato determinato a guadagnarsi un posto nella società rispettabile e il cuore della bella Angela Vickers. Diviso tra questa ragazza e l’operaia di fabbrica che aspetta un bambino da lui, Eastman compirà un’azione passionale disperata che distruggerà per sempre il suo mondo.

 

Un posto al sole è uno dei grandi classici della cinematografia americana, che sorprende non solo per l’estrema bravura dei suoi interpreti, ma anche per la semplicità e la forte malinconia con le quali viene raccontata una storia che, all’epoca della sua uscita (1951), era attualissima.

Il film è tratto dal bellissimo romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser, drammatico e commovente, di cui Stevens fa una versione per lo schermo assolutamente grandiosa ed altrettanto toccante. Montgomery Clift è magistrale nell’interpretare l’ambigua personalità del suo personaggio, George Eastman, ragazzo di umili origini che, cercando fortuna nella fabbrica di famiglia, dapprima si innamora di una sua collega operaia (Alice, Shelley Winters), la quale rimane incinta, e poi di Angela (Elizabeth Taylor), ragazza dell’alta società, bellissima e piena di classe. Consumato dalla paura e dal desiderio, Eastman pensa unicamente al suo amore e non fa nulla per salvare la povera Alice, caduta dalla barca durante una gita sul fiume; ciò gli costerà un processo in cui verrà giudicato colpevole e condannato alla sedia elettrica.

Stevens si concentra sull’analisi psicologica e sociale del personaggio di Eastman, che mostra di avere una doppia personalità: inizialmente fragile e con i piedi per terra, egli inizia a lavorare nell’azienda dello zio senza troppe pretese e si invaghisce della “sempliciotta” Alice; ma quando incontra Angela Vickers, ereditiera dolce e fine, rimane folgorato non solo dalla sua bellezza, ma anche dalla sua appartenenza ad un ambiente sociale diverso, fatto di feste frivole e ricchezza ostentata. Il forte desiderio di scalata sociale porta il protagonista ad allontanarsi dalla ragazza che lavora con lui, la quale diviene un ostacolo al suo ingresso nella società che conta e di cui vuole fare parte a qualsiasi prezzo.La sensibilità vibrante di Montgomery Clift, la sofferenza che trapela dalla fronte bagnata dal sudore e dalla postura sbilanciata, e il suo sguardo misto di dolcezza e di paura portano lo spettatore ad avere compassione per il personaggio di Eastman (soprattutto nella parte finale del processo dove Stevens mette in evidenza quali sono le vittime e quali i colpevoli, con la condanna unanime dei secondi) e davvero non si comprende come un attore di tale spessore non abbia mai vinto l’Oscar, non solo per questa interpretazione, ma anche per molte altre delle sue performance. Profonda e carica di passione anche  Elizabeth Taylor, che diventò grande e sincera amica di Clift (insieme girarono tre pellicole), in crescita rispetto ai film precedenti, più matura e consapevole delle sue capacità attoriali messe ad uso di una naturale bellezza. La scena del bacio è da brividi ed è una delle più romantiche che i due abbiano recitato. Bravissima anche Shelley Winters nel ruolo della vittima innocente, la trascurata Alice, parte che valse all’attrice la candidatura al Premio Oscar come Migliore Attrice non protagonista. Il film in tutto si aggiudicò sei premi, di cui i più meritati sono la splendida fotografia in bianco e nero di William C. Mellor e sicuramente la regia di George Stevens di un giallo-giudiziario dalle tinte malinconiche e romantiche, uno dei capolavori della Paramount del 1951.

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