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R Recensione

8/10

Todo modo regia di Elio Petri

Drammatico
recensione di Valerio Zoppellaro

La vicenda ha luogo in un albergo-eremo-prigione, nel quale capi politici, grandi industriali, banchieri e dirigenti d'azienda, tutti appartenenti alle varie correnti democristiane, si ritrovano per gli annuali ritiri spirituali di tre giorni per espiare i reati di corruzione e altro che essi erano soliti praticare. Questa volta la riunione avviene in concomitanza con un' epidemia che miete numerose vittime in Italia.

Elio Petri porta sullo schermo la sua personale visione del potere cattolico/democristiano dell’epoca rielaborando il romanzo di Leonardo Sciascia da un punto di vista grottesco. Lo stesso autore siciliano definì l’opera come “un film pasoliniano, nel senso che è il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana” e sia le ambientazioni che i contenuti fanno tornare in mente Il Decameron e Salò o le 120 giornate di Sodoma .. Dopo aver analizzato le condizioni di vita degli operai cottimisti (La classe operaia va in paradiso), le manie di grandezza di un commissario di polizia (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) e l‘importanza del denaro nella società dell’epoca (La proprietà non è un furto) Petri fa una riflessione sulla classe politica che rappresenta il popolo descritto nella trilogia delle nevrosi. In un’ipotetica fenomenologia hegeliana della filmografia di Elio Petri, Todo Modo dovrebbe rappresentare la mirabile sintesi del cinema del regista e allo stesso tempo una critica feroce alla Democrazia Cristiana. L’opera resta però incompiuta sia per i tempi non più maturi che per il ricorso a colori cupi, a ritmi lenti e a un grottesco troppo avanti nei tempi nell’ottica di una riflessione sulla contemporaneità. A distanza di trentotto anni si può dire che Petri non è stato lungimirante perché la classe politica dell’ epoca non solo non è morta ma è riuscita anzi a resuscitare nel momento in cui era agonizzante e a reinventarsi in forme ancora più terribili di quelle descritte in Todo Modo; se infatti all’epoca era ben chiaro chi dovesse andare a Zafer, in una rivisitazione attuale il viaggio sarebbe destinato a tutti e sarebbe complicata una distinzione tra le parti

Il merito principale dell’opera è la capacità di descrivere perfettamente una corruzione che va al di là del bene e del male, nell’impossibilità di individuare un concetto di redenzione. Anche gli stessi esercizi spirituali altro non sono che la subdola espressione di un potere spezzettato in varie forme. In questo grottesco luogo di espiazione tutti hanno paura di rimanere tagliati fuori e tutti sanno che nulla avviene alla luce del sole. Nel cast stellare brillano tre interpretazioni: quella di Ciccio Ingrassia nei panni del puritano Voltrano, quella di un insolito Marcello Mastroianni nei panni del potentissimo Don Gaetano e soprattutto quella dello straordinario Gianmaria Volontè che interpreta Il Presidente. L’attore prese spunto dalla figura di Aldo Moro e lo stesso Petri ricorda come “la somiglianza tra i due era imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco". Il personaggio di Volontè è ambiguo, apparentemente debole, con spiccate tendenze omosessuali e per tutta l’opera non si riesce a capire quale sia effettivamente il suo potere e il suo rapporto con il concetto di peccato.  Potrebbe essere l’assassino di tutti, in realtà dà l’idea di essere l’unico a conoscere la propria morte e il piano finale, è l’ultimo a morire e allo stesso tempo il primo vincitore. Da questo punto di vista il personaggio di Volontè ricorda tanto Andreotti e la sua morte lascia un velo di inafferrabilità su tutta la vicenda.

Il film ebbe numerose vicissitudini per quel che riguarda la colonna sonora, inizialmente affidata a Charles Mingus e poi ad Ennio Morricone dopo il consulto con Renzo Arbore;  il flop dell’ opera portò alla fine del film politico in Italia e del sodalizio artistico tra Elio Petri e Gianmaria Volontè dopo una serie di contrasti. Todo Modo rimase nelle sale per meno di un mese e venne snobbato sia per il suo ritmo lento che per il momento storico in cui uscì. L’opera subì infatti critiche sia dalla Democrazia Cristiana che da un Partito Comunista Italiano in pieno compromesso storico. Il successivo rapimento di Moro rese di fatto l’opera invisibile per moltissimi anni prima del restauro di quest’ anno. In un’epoca diversa è però possibile apprezzare i tanti lati positivi, come le magistrali interpretazioni degli attori (in un cast che comprende tra gli altri anche Michel Piccoli, Mariangela Melato e Renato Salvatori), la claustrofobica cura nelle angolazioni e nei dialoghi e le profonde e ambigue riflessioni sui rapporti tra Chiesa e Stato e tra potere e spiritualità. Un’opera assolutamente da rivedere e da rivalutare.

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