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8/10

Fight Club regia di David Fincher

Drammatico
recensione di Elena Rimondo

Un mite e represso giovanotto incontra durante un viaggio in aereo uno strano personaggio di nome Tyler Durden. I due sono destinati non solo a incontrarsi nuovamente, ma a diventare addirittura coinquilini in una casa fatiscente in periferia. Insieme, Tyler e il protagonista fondano un club di pugilato clandestino, chiamato Fight Club, i cui soci si ritrovano di notte per prendersi a botte fino allo sfinimento. Da circolo segreto, il Fight Club si espande in tutti gli Stati Uniti, raccogliendo attorno a sé persone disadattate il cui obiettivo è la distruzione del sistema capitalistico. Finale a sorpresa, in cui si scopre la verità su Tyler e sul protagonista stesso.

È difficile stabilire se Fight Club, il film, abbia ricevuto lustro dall’essere tratto dal romanzo di un autore di culto come Chuck Palahniuk, o se, al contrario, il film non abbia per riflesso contribuito in certa misura al successo del libro. In ogni caso, chi scrive tiene a precisare che non ha letto il romanzo, per cui il film verrà considerato come un’opera a sé stante, senza giudicare se l’adattamento sia riuscito o meno.

Innanzitutto, se il film di Fincher è stato prima un successo e poi è addirittura diventato un classico è a causa della crudezza di molte scene. A parte le sequenze iniziali, il film mostra un’escalation di violenza non solo gratuita, ma addirittura goduta, che ha in Arancia meccanica di Kubrick il suo antesignano. C’è una sostanziale differenza, tuttavia, tra la violenza del film di Fincher e quella di Arancia meccanica, che rende il primo ancor più ripugnante: mentre i violenti immaginati da Burgess sono essenzialmente dei sadici, la conventicola del Fight Club è caratterizzata da una buona dose di masochismo, perciò non vede l’ora che faccia buio per darsi alle lotte clandestine negli scantinati di periferia. Il protagonista, Tyler e i loro seguaci non possono però essere definiti dei meri masochisti. Il film di Fincher nasconde un fondo filosofico sotto la superficie violenta, e se oggi è ancora un cult lo si deve al suo essere estremamente attuale. La dottrina professata da Tyler e i suoi anticipa di circa dieci anni movimenti come Occupy Wall Street, gli Indignados e, soprattutto, Anonymous. Ciò che infastidisce di più Tyler e i frustrati che raccoglie attorno a sé è lo strapotere della finanza, l’imperversare della tecnologia, il consumismo sfrenato (di oggetti tecnologici in primis) e l’etica capitalista dell’accumulo. I seguaci del Fight Club non sono dei vandali in preda ad una follia distruttiva diretta verso tutto e tutti, ma degli esponenti di quel che oggi definiremmo “99 %”. I loro attacchi sono rivolti a negozi di computer, banche e altri simboli della finanza, per cui Tyler & Co., malgrado la loro follia, finiscono per suscitare una certa simpatia.

Non è solo per la violenza di molte scene, però, che il film di Fincher risulta ripugnante. Fotografia, montaggio, musiche, location: tutto contribuisce a fare di Fight Club un’esperienza che lascia il segno nello spettatore. Sostituite ai costumi e alle scenografie candide di Arancia meccanica lo squallore di Trainspotting e otterrete una buona approssimazione di Fight Club. La maggior parte delle scene si svolge di notte o in ambienti poco illuminati, come la stamberga allagata dove Tyler e il protagonista vivono o lo scantinato dove avvengono le lotte clandestine. Il film di Fincher è dunque innovativo e originale da un punto di vista formale, ed è forse in questo che va ricercata la sua peculiarità rispetto al romanzo. Per esempio, nel film sono disseminati vari fotogrammi rivelatori (l’ultimo, alla fine del film, è il più noto), trovata che richiama gli scherzetti che Tyler dice di divertirsi a fare quando lavora come proiezionista.

A sette anni dall’inizio della crisi, Fight Club è sicuramente un film da rivedere perché, malgrado le scene forti, offre molti spunti di riflessione sul problema e una terapia d’urto come soluzione.

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