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6/10

Pride regia di Matthew Warchus

Commedia
recensione di Elena Rimondo

Gran Bretagna, 1984. I minatori hanno iniziato il lungo sciopero contro il governo Thatcher, mentre la comunità degli omosessuali combatte per non essere più considerati dei “pervertiti”.Giunti alla conclusione che l’unione fa la forza, gay e lesbiche decidono di aiutare, economicamente, ma non solo, i minatori di un villaggio del Galles. Nonostante la buona volontà, il gruppo londinese di lesbiche e gay deve faticare affinché i minatori accettino il loro aiuto, ma alla fine la Thatcher avrà la meglio su tutti.

“Ma che siamo in un film di Ken Loach!?”, si potrebbe chiedere lo spettatore, parafrasando Nanni Moretti in Ecce Bombo. No, non siamo in un film di Ken Loach, e lo si capisce ben presto. È vero, Pride contiene tutti i temi che di solito caratterizzano i film del grande regista inglese: lo sfruttamento dei lavoratori, l’attenzione per gli emarginati, la lotta per i diritti, le politiche ingiuste perseguite dal governo, le profonde disuguaglianze nella società. Temi molto delicati, quindi, ma sempre stemperati da una giusta dose di momenti comici che hanno come protagonisti uomini e donne un po’ cialtroni ma simpatici, senza arte né parte e a volte persino opportunisti, più a causa delle circostanze che per cattiveria intrinseca.

Anche il film di Warchus ruota attorno ad un tema delicato, anzi due. Da un lato, i minatori in lotta per difendere la loro unica fonte di sostentamento, ovvero le miniere di carbone del Galles; dall’altro, i gay e le lesbiche, ovvero i reietti della società. Questi ultimi, su iniziativa di Mark Ashton, giovane animato da passione civile, fondano il gruppo LGSM (Lesbians and Gays Support the Miners) per raccogliere fondi da inviare ai lavoratori di Onllwyn, paese dal nome impronunciabile per i cui abitanti le miniere sono tutto. Anche se non sembra essere passato così tanto tempo dagli anni ’80, in trent’anni molte cose sono cambiate per la condizione degli omesessuali, sia a livello legislativo che nella società, soprattutto in Gran Bretagna. Non c’è quindi da stupirsi se nel 1984 i minatori abbiano accettato l’aiuto di lesbiche e gay solo dopo molte resistenze, tanto che la notizia dell’insolita accoppiata verrà impugnata dai giornali e dal governo per screditare i minatori stessi.    

Il regista di Pride ha fatto con il cinema di denuncia un po’ come gli omosessuali hanno fatto con i minatori gallesi: ha inserito il tema serio, che potremmo definire “alla Loach” (lotta per il lavoro), nel filone dei film sui gay e dintorni per raccogliere fondi (alias incassi al botteghino) e per donargli visibilità. L’operazione lì per lì riesce, ma nel lungo termine si rivela un fallimento, esattamente come successe con i minatori. Il film cattura fin da subito l’attenzione grazie ad un ritmo quasi forsennato, alle canzoni-simbolo degli anni ’80, ad un cast di attori formidabili e, soprattutto, grazie alla situazione insolita, ma tutto ciò finisce per ritorcersi contro lo scopo stesso del film. La gravità della situazione dei minatori non occupa mai il primo piano e la lotta contro il governo per difendere il proprio posto di lavoro viene affidata a qualche sporadica scena in cui gli scioperanti vengono presi a manganellate dalla polizia e a qualche immagine d’archivio in cui compare la cotonatura più odiata d’Inghilterra. Malgrado i buoni propositi, il film sorvola sui motivi che portarono allo sciopero, cioè su un tema di importanza capitale in questo momento. Tra l’altro, rinfrescare la memoria sull’annus horribilis dei lavoratori inglesi sarebbe stata un’operazione più che meritoria. Ma vuoi mettere il folclore di un gay pride contro il grigiore di un villaggio minerario gallese? Persino nelle sequenze dedicate alla spedizione nel profondo Galles da parte dell’LGSM vengono sfruttate fino all’osso tutte le potenzialità offerte dall’incontro-scontro tra opposti: città contro provincia, i virili minatori contro le cosiddette “femminucce”, mogli contro mariti, bacchettoni contro liberali. Le vie di mezzo sono bandite, in questa sarabanda che assomiglia troppo ad una fiera degli stereotipi, dalla lesbica che più maschiaccio di così non si può all’anziano minatore che alla fine rivela la sua omosessualità (alzi la mano chi non l’aveva capito fin dall’inizio). In definitiva, Pride non è nient’altro che un’operazione commerciale molto furba e accattivante, cui va però riconosciuto il merito di aver fatto conoscere al grande pubblico una vicenda quasi dimenticata.

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