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7/10

Kaboom regia di Gregg Araki

Commedia
recensione di Alessandro M. Naboni

Fuori concorso al Festival di Cannes 2010, Kaboom è il decimo lungometraggio del talentuoso Gregg Araki. Il giovane Smith (Thomas Dekker) sta passando i suoi quattro anni di università come ogni studente anti-modello dovrebbe fare, tra sesso, esperienze al limite ed errori che si susseguono senza soluzione di continuità. Un sogno ricorrente turba le notti che separano il protagonista dall’imminente diciannovesimo compleanno: quello che all’inizio sembra soltanto un incubo notturno si fa più concreto dopo che il biscotto allucinogeno mangiato per caso a una festa apre una breccia nella mente di Smith. Da qui in poi una crescente presa di coscienza porterà il giovane a confrontarsi con il suo destino che inevitabilmente diventa quello di tutta l’umanità. Niente catastrofismi alla Emmerich, ma soltanto l’irriverente grottesco-pop tipico di Araki.

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C’era una volta il mondo orgasm-allucinogeno di Gregg Araki dove niente vuole essere quello che sembra, dove ogni moralità è relativa-e-ribaltabile così come l’orientamento sessuale, dove il sesso non è l’apostrofo rosa tra nessuna parola, ma una precisa scelta di punteggiatura narrativa e di vita. It’s all about sex, not love, not love stories, only sex.

Los Angeles, Smith è appena arrivato al college, quell’intermezzo tra le superiori e la vita vera, 4 years of having sex, making stupid mistakes and experiencing stuffs; sembra un Jared Leto ancora più gay-friendly, non ama gli stereotipi di genere, ha un’intesa attività edonistica mente-mano-pene e da un po’ di tempo ripete lo stesso bizzarro sogno in cui molti psico-analisti sguazzerebbero volentieri: nudo in lungo corridoio con presenze umane che acquisiranno un proprio (non) senso con il dipanarsi della matassa, poi una rossa misteriosa che indica una porta nera con il numero 19, come l’età che Smith sta per raggiungere. A red dumpster.

Intro in puro stile Araki, suggestioni lynchiane, colori pop, immaginario rock-alternativo e una trama che sa rimanere al limite del teen movie senza sconfinare e acquisendone gli stilemi più superficiali come specchietti per allodole. Almodovar incontra Lynch. Poi una festa con la migliore amica Stella (Haley Bennett), un biscotto-con-la-droga-dentro, London in un bagno, ancora la rossa misteriosa, minacciosi uomini con teste di animali e la storia che prende una deriva alla Richard Kelly di Donnie Darko più che a quel pasticciaccio brutto di Southland Tales con cui però condivide una certa visione sul destino della terra. This is the way the world ends. Not with a whimper, but with a bang, citando Kelly che cita-a-modo-suo T.S. Eliot. Se Southland Tales era inutilmente lungo, eccessivo e iper-citazionista, cosmogonico e cristologico oltre il pretestuoso, Kaboom vira su altri toni più leggeri, meno massimi sistemi e più semplicità narrativa che la dice lunga sul differenziale di talento, quello vero non da un cult e via, tra i due autori.

In un crescendo surreal-fenomenologico il protagonista prende coscienza del proprio destino all’interno di un processo a cascata che pare inarrestabile non tanto in sé quanto per l’esserci arrivati troppo tardi: a-sincronie di sceneggiatura che il regista-demiurgo impone dall’alto, salvando-o-condannando-a-seconda-delle-prospettive un’umanità lanciata su un binario morto a tutta velocità. È tutto inutile, pare dire Araki. Il solito pulsante rosso nel silenzio di una stanza asettica, grande topos di-quei-film-lì, segna il deragliamento finale di una materia rischiosa da trattare al cinema. See you at the bitter end.

Video messaggi omo-amorosi, gli Helen Stellar in concerto, il coinquilino Thor-come-il-fumetto e la sua collezione di infradito ordinate per colore, uno stato di perenne arrapamento onnivoro sognando un pompino con Lady Gaga in sottofondo, la splendida ninfetta Juno Temple, orgasmi wireless, un inseguimento in cui mancherebbe soltanto Adam West con la sua Batmobile sixties, un coltello nel cervello che stacca a-la-Fulci su un succulento pancake, scorribande lungo la scala di Kinsey e curiose sessual-applicazioni della proprietà transitiva. Un corto-circuito d’immaginario che monta fino al parossismo, fino al sovraccaricarsi dei significanti che fa perdere al visibile il suo rassicurante significato. Kaboom non è una geniale provocazione psichedelica come fu Doom Generation (1995) o un potente ritratto d’infanzie violate e adolescenze compless(at)e come Misterious Skin (2004); è un divertissement pop in cui l’autore gioca a tarantinizzare sé stesso, il proprio stile per raccontare una storia che non vuole essere nient’altro che quello che è, un libero flusso di coscienza creativa scritto-e-montato da Araki senza velleità socio-psicologiche, teologiche o apotropaiche per la serie we just wanna have fun.

Strange seems to be the new normal lately.

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alexmn 7/10

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