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6/10

L'Età Barbarica regia di Denys Arcand

Commedia
recensione di Alessandro Pascale

Jean-Marc Leblanc, un funzionario del Quebec, per sfuggire alla sua banale vita quotidiana, si rifugia in un mondo onirico fatto di conquiste femminile e grandi avventure.

Denys Arcand abbiamo imparato a conoscerlo grazie ad opere geniali come Il declino dell'impero americano e soprattutto Le invasioni barbariche, premio oscar come miglior film straniero nel 2004 e probabilmente uno dei film più squisitamente progressisti e pro-eutanasia che siano mai stati fatti (in questo il perfetto alter-ego di un'opera altrettanto elegante e commovente quale Lo scafandro e la farfalla).

L'età barbarica tenta fin dal titolo (ovviamente non originale, che invece era un più discreto “L'età delle tenebre”) di riallacciarsi alla tematica del grande successo con cui l'autore canadese è balzato alle cronache cinefile di tutto il mondo. Il filo conduttore che si segue è quindi quello di una denuncia e condanna dell'attuale società occidentale, ritratta dall'alto con uno sguardo sprezzante da parte di un intellettuale che non si capacita di dover essere condannato alla mediocrità nonostante le sue doti e qualità brillanti.

Un certo aristocraticismo elitario pone Jean-Marc Leblanc (ma si potrebbe prendere in considerazione qualsiasi protagonista dei film precedenti di Arcand) come un uomo tremendamente insoddisfatto della propria vita, le cui disgrazie, a suo modo di vedere, derivano dalla nefandezza di un mondo circostante che è precipitato nella barbarie, o per l'appunto nelle tenebre. Un motivo ormai noto ad un certo ceto accademico (in Italia abbiamo Alessandro Baricco, a livello socio-politico vi si può leggere in tale maniera la “modernità liquida” di Bauman), deciso a condannare queste derive irrazionali di un pensiero dominante esemplificato dall'ortodossia conformistica della moglie di Jean-Marc, Sylvie (Sylvie Léonard), donna tutto lavoro che vive la propria vita impostandola come se dovesse fare la spesa al supermercato.

Di fronte a questa triste realtà l'unico rimedio per il protagonista diventa rifugiarsi nel sogno, nelle fantasie ad occhi aperti, in cui può diventare un grande romanziere, l'uomo che salverà il Canada o semplicemente uno stimato filosofo. Il fattore sogno viene realizzato con dinamiche stranianti ed esagerate che ricordano il Gondry di L'arte del sogno, ma che possono essere fatte affondare fin al primigenio Otto e mezzo felliniano.

In realtà emerge chiaramente quanto lo stesso protagonista sia anch'egli colpevole del suo stesso fallimento umano: schiavo di un'irresolutezza e di un'arroganza che lo portano al distacco e al rifiuto di voler affrontare i problemi, la soluzione continuamente fantasticata giunge peraltro non a nobili aspirazioni valoriali e artistiche ma incessantemente ad una scopata a pecorina con una famosa giornalista...

Tutta la bassezza del personaggio viene fuori, secondo uno schema che però nuoce all'opera complessiva, precipitando l'opera da un filone comico-grottesco grazioso e levigato ad un dramma esistenziale di proporzioni sempre più tragiche, rendendo la seconda parte del film più impegnativa e pesante, quasi inconcludente, nonostante il suo riaggancio semi-ottimistico alla realtà.

Nonostante quindi l'opera presenti notevoli tratti interessanti e si apra a molteplici osservazioni, simbolismi e approfondimenti non si riesce a non storcere un tantino il naso per un finale non convincente, insoddisfacente nella capacità di chiudere in maniera roboante un film che per lunghi tratti raggiunge picchi notevoli di commedia surrealistica.

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