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3/10

Imbattibile regia di Ericson Core

Sport
recensione di Alessandro Pascale

Nel 1975, Vince Papale è un precario che lavora come barista metà-tempo e insegnante supplente, quando l'allenatore dei Philadelphia Eagles (Dick Vermeil) sua squadra del cuore, organizza dei provini aperti al pubblico, Papale vi partecipa. Guidato dalla passione e dalla caparbietà, alla tarda età dei trent'anni, inaspettatamente viene scelto per diventare un giocatore professionista di football americano.

Generalmente me ne sbatto alquanto di scrivere su cosette come Imbattibile, melenso film targato one American sport hero siglato per di più Disney. La favoletta della buona notte insomma, dove l’ometto di strada disoccupato, ligio alle regole, beneducato e gentile si solleva da una situazione disastrosa (ovviamente non imputabile a lui) giungendo al successo individuale grazie ad un’impresa sportiva irreale. In questo caso però, preso da un’impeto di ribellione, ho deciso di buttar giù qualche riga per protestare, per levare al cielo una piccola e insignificante voce che esprimesse la sua netta contrarietà al messaggio neanche troppo subliminale che sta dietro l’opera. Lo sfondo è quello di una Philadelphia che nel 1975 è sconvolta dalla recessione economica.

Frequentemente il regista Ericson Core riporta l’attenzione su un costante capannello di operai, in sciopero davanti alla propria fabbrica per chiedere la garanzia di un diritto basilare come quello del lavoro. Lo stesso Vince Papale è un insegnante precario che fatica ad arrivare a fine mese, trovando rifugio nel lavoretto serale al pub e nella partitella settimanale di football con gli amici di sempre, generalmente anticipata da una visita allo stadio per veder perdere la propria squadra del cuore dei Philadelphia Eagles. Fin qui niente di male, per carità, come ho già detto ci può stare che un trentenne superi delle improvvisate “primarie” ed entri in prima squadra diventando professionista uscendo fuori dal nulla.

D’altronde è una storia vera, di quelle che danno speranza, nonostante sia deprecabile il fatto di incoraggiare sempre e comunque l’idea che per migliorare le proprie condizioni ci voglia una specie di miracolo, mentre la lotta politica sembra non portare a nulla. Quello che però mi ha fatto andare letteralmente in bestia è stato il meccanismo con cui si è voluto far passare il successo di Vince come il risorgimento dell’intero gruppo di amici, se non di un popolo (classe operaia), se non addirittura di un’intera città! L’idea che il football possa dare una speranza all’operaio medio, dandogli lo stimolo ad ingoiare il rospo per trent’anni di fila è quanto di più disgustoso e malsano possa esserci, e l’idea di far passare questo dato come un fatto positivo è deplorevole da ogni punto di vista.

Il football è uno sport, ma soprattutto è uno sport ricco, come da noi è il calcio. Credere di poter risolvere i problemi di un’intera classe disagiata guardando una partita in televisione è una barzelletta: è la tattica del panem et circenses, divertiti e non rompere. È la tattica del nazionalismo e della guerra: creare un obiettivo illusorio (la grandezza della nazione) che di fatto non porta alcun beneficio al poveraccio. Poi lo ribadisco: inneggiare ad una società in cui uno ce la fa ed altri venti esultano per lui mentre rimangono nella miseria equivale ad esaltare la società del privilegio, della casta, della disuguaglianza, dove accetti che oggi tocchi ad un altro e speri che domani tocchi a te, rifiutando però di mettere in discussione il sistema perverso nella sua totalità.

Che poi mi vengano pure a mostrare i capannelli degli operai che non portano a nulla di buono, a contrario delle soddisfazioni procurate dal football, è poi una presa per il culo troppo grande per non essere denunciata e disprezzata. La Disney si ricordi che le favole non devono raccontare del progresso di un individuo ma devono far progredire l’individuo che legge. E questo non mi sembra proprio il caso, anzi la trovo una terribile narrazione degna del miglior neoliberismo reaganiano. Ah comunque Mark Wahlberg è il solito guascone dal bel faccione, Ericson Core alla regia è impalpabile nella sua classicità asfittica. L’unica cosa discreta sono costumi e scenografia, ma non riuscire a sfruttare tali elementi in un film sul football negli anni ’70 sarebbe stato di idioti. Troppo poco, fatto male, e per di più detto con parole squallide. Guardate altro.

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