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A Spike Jonze

Spike Jonze

Inizialmente regista di videoclip per i R.E.M, Björk, Ice Cube, i Chemical Brothers, i Weezer  e i Daft Punk, Spike Jonze ha soltanto tre lungometraggi all’attivo: Essere John Malkovich (1999), Il ladro di orchidee (2002) e Nel paese delle creature selvagge (2009), ma deve, in parte, la sua popolarità alle riviste HOMEBOY e DIRT, fondate negli anni '80, alla sua carriera nell’editoria, al matrimonio con l’eccelsa Sofia Coppola, e, soprattutto, al sodalizio con il celebre sceneggiatore Charlie Kaufman, con cui ha lavorato per i suoi primi due film.

Probabilmente uno dei migliori registi esistenti nel panorama cinematografico attuale, è riuscito a fare dell’anomalia e dello stravolgimento narrativo il suo punto di forza. Da dissacrante, ingegnoso burattinaio (che si riflette nel personaggio di Craig Schwartz, in Essere John Malkovich) crea storie di cinema e sul cinema, intreccia finzione, realtà, protagonisti veri con personaggi fittizi, stratifica le sue storie, spesso, rintracciando, nei suoi livelli narrativi, connessioni inaspettate e punti di contatto immaginari. Riesce ad autocitarsi, senza cadere nell’autocelebrazione, dando un’impressione di organicità al suo intero lavoro di cineasta. Spesso è stato paragonato a Michel Gondry (L’Arte del Sogno, Eternal Sunshine of the Spotless Mind) e, non a caso, entrambi sono fondatori della DIRECTORS LABER. Li accomuna il paradosso, l’assurda visione che i sogni e le fantasie, prodotte nel processo creativo, siano la chiave per comprendere noi stessi.

Le sue pellicole sono il trionfo del mise en abyme, del meta-racconto, della rappresentazione della storia nella storia, e Adaptation ne è il perfetto esempio, avendo come protagonista uno sceneggiatore che ritrae se stesso nell’atto di scrivere la sceneggiatura del medesimo film di cui è protagonista. L’arte è perennemente vista e vissuta come un gioco di specchi, come autoriflessione che genera se stessa, come forma di meditazione in cui possiamo ritrovare sempre e comunque una fine che è identica al suo principio. “È il finale a fare il film”, come direbbe Kaufman, e questo è chiaro a chi conosce le opere di Jonze.

Il cinema è sempre un pericoloso strumento di narrazione, genera popolarità, personalità distorte, creando falsi miti, personaggi sempre più enigmatici, ma usando la maschera stessa del cinema, lo si può analizzare ancora più a fondo. Così Jonze crea un pretesto per far recitare gli attori e gli sceneggiatori nel ruolo di se stessi, per renderli, paradossalmente, più reali. Ovviamente, risulta più artificioso di moltissimi altri registi, quasi indigesto, a tratti, ma nella sua esasperazione della metanarrazione, riesce ad essere ancor più autentico. Lascia che il cinema diventi film, per poterlo studiare con i suoi strumenti, adattando le sue storie alla mente dei protagonisti, tornando a riavvolgersi su stesso, in una spirale in cui lui funge da asse centrale.

La sua potrebbe essere interpretata come un’ossessione per se stesso e per il suo lavoro, che l’ha sempre portato ad essere un maniaco dell’indipendenza artistica e a rifiutare produzioni come: Human Nature (2000), Star Wars: Episodio II – L'attacco dei cloni (2002), Memorie di una geisha (2005), Guida galattica per autostoppisti (2005), Synecdoche, New York (2008) e Il curioso caso di Benjamin Button (2008).

Superficialmente i suoi film somigliano a bolge mentali, appaiono come autoironici lavori d’immaginazione, ma l’invenzione filmica riesce ad essere, a lungo andare, una notevole chiave di lettura ed un ottimo criterio per ordinare il suo apparente caos. “Dobbiamo renderci conto che ognuno di noi ha un suo genere e dobbiamo trovare l’originalità all’interno di quel genere” (sosteneva il gemello di Kaufman in Adaptation).

Jonze ha preso un genere apparentemente semplice, come la commedia, e l’ha reso meravigliosamente complesso, sfaccettato, visionario, collocandosi nell’Olimpo dei registi più folli e, al contempo, più acclamati del cinema contemporaneo.