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A Ken Russell

Ken Russell

   Ken Russell nacque il 3 luglio 1927 a Southampton, in Inghilterra, figlio maggiore fra due fratelli nati da Ethel Smith e Henry Russell, proprietario di un negozio di scarpe, che fu per lui un padre freddo e distante, tanto da trasmettergli quel cinismo che poi si ritroverà in molte delle sue pellicole. Proprio a causa del difficile rapporto fra i due, Russell passò molto tempo al cinema con sua madre, soprattutto dopo che a questa venne diagnosticata un malattia mentale. Cresciuto con il sogno di diventare un ballerino (anche per via dei tanti musical visti sul grande schermo, che parevano essere l’unico genere cinematografico a rasserenare le turbe psichiche della donna), Russell studiò invece fotografia al College di Walthamstow. Terminati gli studi, entrò a far parte della Royal Air Force e, infine, della Marina Mercantile. Solo dopo aver lungamente viaggiato per il mondo, Russell deciderà di concentrarsi esclusivamente sulla sua carriera di fotografo, diventando una presenza fissa in tantissimi spettacoli di danza e imponendosi come un fotografo professionista e indipendente fino al 1959. Dopo questa data, conobbe gli esponenti del Free Cinema inglese che lo influenzarono notevolmente nella scelta di seguire un percorso diverso da quello che si era prefissato. Pensava di voler essere un fotografo per il resto della sua vita, ma una possibile carriera da regista lo sedusse in maniera così incisiva da spingerlo a fare domanda di assunzione alla BBC.

  Dal 159 al 1970, si ritrovò a realizzare fiction biografiche di personalità artistiche di ogni settore. Si partì con Elgar (1962), al quale seguì The Debussy Film (1965), Isadora Duncan, the Biggest Dancer in the World (1967), Song of Summer (1968), che consacrarono come attore Oliver Reed e come compositore Frederick Delius. Ma Ken Russell sarebbe rimasto confinato alla televisione inglese, se non fosse stato per quella primigenia nota di “indecenza” che cominciò ad affiorare nel suo stile e nei suoi contenuti. A cominciare dal televisivo Dance of the Seven Veils (1970), che voleva essere un ritratto di Richard Strauss e che si trasformò, invece, in uno dei maggiori scandali mediatici del Regno Unito, perché Russell ebbe l’ardire di dipingere il compositore tedesco come un nazista, irritando la famiglia Strauss al punto tale da ritirare immediatamente i diritti musicali sulla pellicola e a interdirne la proiezione fino al 2019.  

  Questo diede la spinta necessaria a Russell per emigrare sul grande schermo con il suo primo lungometraggio Pepe francese (1964), una commedia vagamente ispirata al film di Roger Vadim Piace a troppi e che ebbe un notevole successo di critica e pubblico. Il suo secondo film fu invece la spy-story Il cervello da un miliardo di dollari (1967), tratto da un romanzo di Len Deighton e con protagonista Michael Caine.

  Ma è tuttavia solo nel 1969 che Russell arriva definitivamente al capolavoro con Donne in amore, adattamento cinematografico del romanzo omonimo di D.H. Lawrence e che raccoglieva nel suo cast attori del calibro di Glenda Jackson, Oliver Reed, Jennie Linden, Alan Bates ed Eleanor Bron. Il film non solo tocco picchi di pura e simbolica poesia, ma fu considerato estremamente indecoroso per aver ripreso la scena di due uomini (Reed e Bates) che lottano nudi, rompendo le convenzioni cinematografiche dell’epoca riguardo al mostrare organi genitali maschili. Cavalcando la rivoluzione sessuale e la moda bohème degli Anni Sessanta, Donne in amore ebbe un clamoroso successo, tanto da essere premiato al Golden Globe come miglior film straniero ed essere nominato in svariate categorie dei BAFTA e degli Academy Awards (fra le quali miglior regista), ottenendo l’Oscar per la miglior attrice protagonista, la Jackson.

  Dopo questo trionfo, Russell continuò a seguire la sua strada, giocando fra innovazioni e temi controversi. Ne fu un ennesimo esempio L’altra faccia dell’amore (1970), un altro film biografico, sulla vita di Pëtr Il'ič Čajkovskij, che ebbe ancora una volta come protagonista la Jackson (nel ruolo della moglie ninfomane del compositore russo) ed ebbe il pregio di imporre all’attenzione del grande pubblico Richard Chamberlain, sfruttando una colonna sonora diretta da André Previn.

  Ma ancora più discutibile fu I diavoli, realizzato l’anno seguente con la collaborazione della Warner Bros. che, nella veste di produttore, pretese da Russell numerosi tagli in sede di montaggio. Ispirato al libro di Aldous Huxley “I diavoli di Loudun”, messo in scena a teatro già da John Whiting, il film si nutrì di una enorme pubblicità e delle indiscrezioni sacrileghe che provenivano da pettegolezzi sul set, a causa delle troppo erotiche scene di sessualità fra religiose. Fu per questi motivi che la pellicola balzò ai primi posti nel box office britannico e lì rimase per otto settimane. Mentre negli Stati Uniti, proprio per i dissensi dell’autore con la Warner Bros., venne censurato.

  A questo punto, Russell tornò a finanziarsi autonomamente e promise di non fare mai più affidamento a uno Studios cinematografico, soprattutto se di matrice statunitense (li considerava enormemente ipocriti, gretti e puramente commerciali). Ed è con questi pensieri in testa che diresse Messia selvaggio (1972), biografia del pittore francese Henri Gaudier-Brzeska. La scelta di narrare l’esistenza di questo pittore e scultore dalla vita relativamente oscura, morto nella Prima Guerra Mondiale, dentro le trincee francesi a soli 23 anni, lasciarono trasparire la reale sensibilità di questo cineasta che, per una volta, scelse di dare poco nell’occhio.

  Affidandosi a David Puttnam, produttore inglese che amò i suoi lavori, Russell riuscì a dirigere uno dei suoi migliori film La perdizione (1974), che però ottenne un modesto successo e Tommy (1975), un’opera rock che ebbe per protagonista il leader degli Who, Roger Daltrey, ma raccolse nel cast anche Ann-Margret, Oliver Reed, Elton John, Tina Turner, Eric Clapton e Jack Nicholson, incontrando un gigantesco consenso di pubblico e critica.

  Nel 1977, fu la volta di Valentino, con Rudolf Nureyev, che fu ancora una volta primo nelle classifiche cinematografiche inglesi e ottiene, invece, un successo più modesto in America.

  Fu del 1980, il suo ripensamento sugli Studios statunitensi, che coincise con la sua prima incursione nella fantascienza. Con Stati di allucinazione, sceneggiato da Paddy Chayefsky (che ne aveva scritto un romanzo), Russell mise in scena effetti speciali barocchi per sottolineare i deliri di William Hurt, guadagnando anche una candidatura all’Oscar per John Corigliano, autore della colonna sonora.

  Il comportamento oltraggioso di Russell si ridestò improvvisamente con China Blue (1984), nel quale diresse Kathleen Turner e Anthony Perkins, ultimo film girato in America prima del suo ritorno nel Regno Unito. Dopo questo periodo, Russell si affacciò a tematiche più horror. Prima ci fu Gothic (1986) con Gabriel Byrne, che narrava le circostanze intorno alla scrittura di “Frankenstein o il Prometeo moderno” (1918) di Mary Shelley e poi con La tana del serpente bianco (1988) con Amanda Donohoe e Hugh Grant, tratto da un romanzo di Bram Stoker. Non mancano elementi esoterici in L'ultima Salomè (1988), vagamente ispirato dall’opera teatrale di Oscar Wilde “Salomé”, che calcò l’acceleratore sulla tematica omosessuale, ottenendo un grande pubblico nelle sale.

  Da qui in poi, la sua presenza sul grande schermo divenne più sporadica. I tempi e i gusti cinematografici stavano cambiando, così decise di ritornare alla televisione, dove riuscì comunque a trasportare tutti gli elementi del suo riconoscibile stile e, cosa più importante, dei suoi contenuti, fino al 2006, anno del suo definitivo ritiro. Ken Russell morì il 27 novembre del 2011 a Londra, all’età di 84 anni.