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A David Lynch

David Lynch

Per tutti è il vate dell’inconscio, il re del neo surrealismo, il morboso scavenger che rovista nella spazzatura sottocutanea, nel lercio dei nuclei cittadini perbene, sacerdote di culti cerebrali, di passioni divoranti, di combattimenti morali ferini e totalizzanti: il profeta dell’allucinazione, l’astrattismo e lo sperimentale, il non spiegato e la non logicità elevati a parametri di confronto per ogni sua opera artistica. Sopra di lui, sopra il suo cinema, sopra la sua visione estetica del mondo hanno scritto articoli, saggi, libri, enciclopedie: ogni contributo cerca di spingere l’analisi un po’ più in là, di forzare la mano laddove ancora non era stato provato, di risultare alambiccato e funzionale allo stesso tempo. Se deve essere difficile essere David Lynch, parlare di David Lynch è ancora più difficile. C’è chi ricorre alle metafore, ai giochi di parole, alle illusioni verbali, accostando sinestesie e litoti, tirando in ballo l’arte figurativa e la psicologia, la matematica e l’attualità, smontando e rimontando da sé il “normale” ritmo narrativo, seguendo il ritmo dell’incessabile decostruzione che – da Six Figures Getting Sick a INLAND EMPIRE – è il motore principale del suo modo di rapportarsi con la realtà fenomenica catturata dal medium cinepresa, filtrata dall’occhio umano e, nel cervello, arbitrariamente frantumata, confusa, manipolata.

Una figura sconosciuta, silente, butterata, seduta alle tenebre di una finestra scalcagnata e mezza rotta aziona delle strane leve: dalla bocca aperta di uno stralunatissimo Jack Nance esce uno spermatozoo, dritto verso un ovulo pozzanghera che sarà, con ogni probabilità, la sua tomba. Questo, per me, è David Lynch. E c’è, un’altra storia, posteriore di quasi trent’anni: Laura Dern corre in slow motion su un sentiero notturno, debolmente illuminato solamente da una luce giallognola in primo piano, la velocità aumenta all’avvicinarsi della donna all’obiettivo, d’improvviso il suo volto – quelle labbra tinte di rosso fuoco sbavato ovunque – diviene visibile in tutta la sua grottesca, oscena deformità. Laura Dern si mette, così, a urlare il suo grido silenzioso, spaventoso, Edward Munch distorto in un vortice di terrore primigenio e nonsenso radicale. In ogni film di Lynch c’è una personale ossessione del suo pigmalione, a cui corrisponde sempre un incubo ricorrente di chi osserva lo scorrere dei fotogrammi: l’apparizione di un mostro cencioso dietro un fast food, un telefono rosso che squilla a vuoto, insetti che brulicano in un tappeto erboso mangiandosi a vicenda, la proiezione prospettica di un cielo stellato, giganteschi vermi che prorompono dalla sabbia, una ragazza che vomita in una stanza di uno sperduto motel al confine col Messico. Ogni pellicola è un uomo, molto più spesso una donna, una femme fatale: Isabella Rossellini, Naomi Watts, la già citata Dern, Laura Harring, Patricia Arquette, chi più ne ha più ne metta, eroine che incarnano erotismo, trasudano sensualità e perdono la loro corporeità (la loro iper corporeità, si potrebbe dire), smarriscono i loro spazi di attività in mondi che non esistono, dove il tempo – se c’è – non conta, la circolarità diviene infinitesimale, la mente scruta i propri fondamenti dall’alto di uno scranno che, forse, è solamente la sua ennesima proiezione.

La storia di David Keith Lynch inizia il 20 gennaio 1946, a Missoula, capoluogo dell’omonima contea nello stato del Montana. Figlio di un chimico agrario, ragazzo irrequieto per natura ed errabondo per necessità (una caratteristica assorbita, quella del nomadismo coatto, imposto dal lavoro del padre, che così a fondo lo segnerà nello sviluppo di una propria poetica pessimista e personalissima), sin da adolescente coltiva una passione per le arti visive, specialmente per la pittura – che, negli anni, diverrà una delle tante forme in cui si esprimerà la sua arte, e una delle poche che gli garantirà successo e sostentamento economico. L’anno zero è il 1966. Dopo una fallimentare iscrizione alla School of the Museum of Fine Arts di Boston, ed un viaggio lampo in Europa che serve solo a rimpiangere i denari perduti e a rinsaldare i legami con la sua terra madre, Lynch si trasferisce a Filadelfia, diventando ufficialmente un freshman della Pennsylvania Academy of Fine Arts. Durante una mostra annuale di scultura e pittura organizzata dall’istituto, l’allora studente presenta la sua prima opera, una videoinstallazione realizzata con l’aiuto dell’amico Jack Fisk – futuro regista e sceneggiatore di fama mondiale – e costata 200 $. Six Figures Getting Sick (Six Times) concentra, in sessanta secondi mandati nevrastenicamente in loop sotto il suono sordo ed ossessivo di una sirena di polizia, lo spigoloso schematismo della pittura di Francis Bacon, l’arte organica di Burri, la pop art devastata di Warhol, lo studio dei contrasti cromatici come infallibile metodo di successione (il)logica, una ciclicità ossessiva e sempre uguale a sé stessa, il gesto purificatore della miccia, del fuoco (vero e proprio main theme, in seguito) che sovverte le piccole azioni schematiche dei sei modelli facciali fissati su tela e li fa, come da titolo, vomitare sulla tela stessa, imbrattandola di colore e striature. Non si tratta certo di un capolavoro, la tensione alla pretenziosità è quella tipica del discente estroverso (che, puntualmente, tanto la ricerca quanto, a conti fatti, la manca), ma vi è qualcosa che annienta e disturba, che colpisce più a fondo: l’asettica mancanza di pietà che circonda le immagini?

Inutile dire che, pensato originariamente come esperimento estemporaneo senza ulteriori velleità di prosecuzione, questo brevissimo spaccato del giovane Lynch darà il via ad una serie incessabile di capitoli secondi. L’anno successivo è la volta di Absurd Encounter With Fear (una metafora allucinata della deflorazione – è il caso di dirlo – del concetto di attrazione sessuale, con volteggiare stridente di distonici archi impro jazz in sottofondo e due giovani protagonisti fantasmi di loro stessi) e di Fictitious Anacin Commercial, dissacrante parodia delle pubblicità “educative” statunitensi dell’epoca, retaggio maccartista e pseudo-buonista di un’America che ritroveremo tale e quale, perbenista e violenta, nei successi degli anni d’oro. L’astrattismo dei primi passi sta tracimando in una nuova forma artistica, come mai prima d’ora. The Alphabet (1968), la cui idea di fondo venne suggerita dalla prima moglie Peggy Lentz, ancora continua nel suo processo di destrutturazione potentemente simbolica, via immagine e rumore ambientale – nel mirino, l’educazione imposta ai bambini e l’incontro/scontro con lo strumento decodificatore della realtà per eccellenza, l’alfabeto – ma, questa volta, vi aggiunge un tema, un significato in itself. Il livore del giovane Lynch verso la gabbia famiglia, l’attenzione all’incarnazione infantile come protesta rumorosa verso un nucleo intimo sentito come disperazione, annullamento di sé (evidente il richiamo che seguirà in Eraserhead) marchiano a fuoco le pellicole del regista che, con l’inizio degli anni ’70, comincia ad alzare la posta in gioco. Del 1970 è proprio The Grandmother, mezz’ora di animazione visuale dove la “nonna” è qualcosa di privato, un seme da innaffiare e far crescere gelosamente custodito nel recinto sacro di un bimbo a cui i genitori, Moloch implacabili e prospicienti, non lasciano tuttavia alcuno spazio d’azione e d’illusione: lo sbocco disperato e nichilista di un ciclo perfetto, a cui il surrealista The Amputee (1974), assurdo esercizio di cinico slapstick realizzato per conto dell’American Film Institute, nulla aggiunge qualitativamente e concettualmente. Parte di questi corti sono stati raccolti, successivamente, nel consigliato The Short Films of David Lynch (2002) e nel box set di dieci dvd The Lime Green Set (2008).

Accennavamo alla sostanziale non innovazione di The Amputee, girato in appena un giorno per testare la diversa qualità di due nuove videocassette messe a disposizione, prima della loro commercializzazione, dallo stesso Institute, e questo perché, già da qualche tempo, almeno dal trasferimento losangelino del 1971, la mente di Lynch lavorava per il salto di qualità definitivo: il primo lungometraggio. Facile a dirsi, molto meno a farsi. La gestazione di Eraserhead è un calvario senza fine. Inizialmente finanziato con 10000 $ dall’AFI, che ritirerà la sua partecipazione economica dopo aver letto lo script (appena venti pagine), costringendo il cineasta ad impegnarsi in una spirale senza fine di prestiti ad amici e conoscenti, verrà continuativamente pensato e rimodellato dal 1972 al 1977. In una parola, sei anni. Regista e creatura, per volere e necessità, si fondono lentamente in un solo oggetto. L’instabilità finanziaria mina alla base il rapporto coniugale con Peggy Lentz, da cui nel 1968 ha avuto la figlia Jennifer: nei primi mesi del 1974 Lynch impegna – perdendola – la casa e si separa dalla moglie. Herb Cardwell, il primo direttore della fotografia, muore improvvisamente dopo appena nove mesi dal primo ciak, venendo sostituito dal fedelissimo Fred Elmes. La camera da letto di Henry Spencer – Jack Nance, set principale (per non dire unico) della pellicola, diviene anche l’abitazione temporanea di Lynch, che in quel letto si corica a fine riprese e da quel letto saluta gli attori che vengono a preparare la scena del mattino successivo. Solo grazie ad un’incrollabile tenacia e alla fiducia totale nel progetto il film trova, finalmente, la sua conclusione nel 1977. La distribuzione si rifiuta di proiettare un simile lavoro, che viene relegato agli spettacoli di mezzanotte e lì, con una heavy rotation di quasi dieci anni, viene assurto ad opera di culto.

Per parlare compiutamente di Eraserhead bisognerebbe scavare a fondo nella testa del suo creatore, che si è sempre limitato a descriverlo come “un sogno di cose oscure ed inquietanti”. Nella sua voluta ellissi, la definizione è calzante. Sogno, le prime immagini sono quasi inequivocabili a riguardo, lo pare davvero essere, e se di allucinazione, o frammentaria reinterpretazione di vicenda reale invero si tratta, il confine non è così netto. L’incubo di Henry Spencer, tipografo che vagola nella fragilità dei suoi rapporti interpersonali con lo stesso smarrimento esistenziale con cui lo vediamo girare in una periferia urbana nuclearizzata dall’impatto alienante e disumanizzante dell’industrializzazione su larga scala, si sublima con la nascita del suo primo (e unico?) figlio. Il sorgere di una nuova vita, da sempre letto come apice di gioia e speranza, si rovescia in un tunnel di tetra disperazione: e non può che essere così, perché il neonato (?) è un mostro prematuro, pigolante, dal testone enorme e privo di arti, la fidanzata una piagnucolosa epilettica con una famiglia alienata alle spalle (madre tirannica, padre creatura dei modern times chapliniani), ed il contorno della notizia – una cena a casa di lei – semplicemente spaventoso, tra orologi a cucù con una sola lancetta (come a dire, cinema lynchiano 1-spazio temporale 0), polli che si muovono e sanguinano appena toccati – uno sverginamento a regola d’arte? –, lampade fulminate e cucciolate di cani irretite da fiumi di rumorismo futurista. Henry si sposerà ed andrà a vivere con Mary, perché così vuole la società, così vuole il buon costume: ma il macigno di una paternità non voluta e, per di più, così complicata distruggerà il rapporto con la ragazza, la sua vita sociale, la sua vita lavorativa (quanto durano le ferie dell’impiegato?) e, ultima ma non per ultima, la sua mente. Il figlio mangerà il padre, e a nulla servirà l’extrema ratio dell’omicidio: la Terra è un inferno dominato dal caso, solo in paradiso (o in un radiatore, pardon, in una dimensione parallela) tutto è al posto giusto.

Milioni di interpretazioni, fiumi di inchiostro accompagnano, da subito, 90’ di ermetico, criptico cinema d’autore non d’autore in bianco e nero. Eraserhead, per rimanere in tema, è il più classico dei figli voluti al punto tale da non esserlo più. A ciascuno il suo, come direbbe Sciascia: il piacere della prima volta – e del primo scervellamento – inquadrano giustamente il film nel novero delle pellicole (weird) più geniali mai realizzate. Proprio dopo aver toccato il fondo della propria parabola artistica ed umana, la fenice Lynch risorge. Risorge a livello personale, sposandosi per la seconda volta con Mary Fisk, ma risorge anche – e soprattutto – a livello professionale. Tanto da meritarsi una candidatura, poi concretamente realizzatasi, per la direzione dell’ambizioso The Elephant Man (1980), biografia dello sfortunatissimo Joseph Merrick (freak da circo affetto dalla rara sindrome di Proteo, che causa un’incontrollata crescita di tessuto cutaneo ed osseo su varie parti del corpo) prodotta da Mel Brooks e inizialmente affidata a Terrence Malick. Con calibri da novanta come Anthony Hopkins e John Hurt nel cast, Lynch dirige il suo vero, primo – e unico – film commerciale. Come? Rendendolo anticommerciale. La vita di Merrick, virata in un bianco e nero dalla grana sopraffina che evita le disturbanti granulosità del predecessore, è un’apologia del “diverso” che sceglie la poesia del piccolo racconto, una secchezza espositiva quasi naturalista e la vernice della visionarietà a baluginare da ogni pertugio. The Elephant Man è un dramma del tempo tardo coloniale, un’epopea amorosa, un film sociopolitico, una serie di dipinti animati: soprattutto, al netto della sensibilità astratta del regista, è una pellicola che, per la prima volta, coincide interamente con una storia. E la storia in questione, inutile sottolinearlo, porta gli spasimi emotivi allo stremo, pur senza ricorrere a nessun tipo di retorica: la morte di Merrick, soffocato nel suo letto per aver cercato di dormire come un uomo “qualunque”, è la firma di una telecamera che fa il giro delle galassie prima di ripiombare, a malincuore, sulla Terra. Ancora una volta.

Otto nomination al premio Oscar (incluse quelle per miglior regia e miglior sceneggiatura) non ricompensano, per questa volta, lo sforzo creativo di David Lynch, che se ne ritorna dalla kermesse a mani vuote. Per questa volta, per l’appunto. Il purissimo talento del cineasta del Montana non è più affare di pochi, cimelio da grindhouse o vanto dell’elitarismo più sfrenato: tutto il mondo, improvvisamente, ne viene a conoscenza. È in questo periodo che, sfruttando l’onda del successo personale, Dino De Laurentiis avvicina Lynch, proponendogli di girare la trasposizione cinematografica del complesso Dune, romanzo del 1965 di Frank Herbert, primo capitolo di un ciclo di sei e caposaldo concettuale dell’intera fantascienza “politica” mondiale. La sfida ha tutti i contorni di una vera e propria impresa, sia per l’oscura sovrabbondanza del linguaggio di Herbert, difficile da rendere via immagini, sia per lo stadio ancora incerto e claudicante in cui versava allora l’industria degli effetti speciali, elemento indispensabile per ritrarre e fissare nella mente dello spettatore lo spazio in cui si svolgono le vicende delle casate Atreides, Harkonnen e Corrino, invischiate in una lotta fratricida per il possesso della “spezia”, droga simile alla cannella di valore inestimabile. Lynch prepara le sceneggiature con lo stesso Herbert, insistendo per ricreare ambienti su scala naturale (videoinstallazioni pittoriche di una nuova era, in un filo rosso che lo collega ancora una volta saldamente a Six Figures Getting Sick) e coinvolgendo Carlo Rambaldi, il creatore dello spielberghiano E.T., per la realizzazione iconografica dei vermi della sabbia, abitanti dello sperduto pianeta Arrakis e strenui difensori della spezia. Tre anni di preparazione preliminare, un anno di lavorazione (di cui sei mesi solo di montaggio e post-produzione), un cast illustre composto da Francesca Annis, Silvana Mangano, Jürgen Prochnow e Sting, oltre all’allora sconosciuto Kyle MacLachan nel ruolo del protagonista maschile Paul Atreides, fanno lievitare rapidamente il costo dell’opera, attestatosi infine tra i 40 e i 45 milioni di dollari.

Al botteghino il film, se non un disastro, va comunque male. Gli incassi totali (poco più di 30 milioni) non bastano a coprire gli investimenti, il pubblico rimane freddo, la critica non ha pietà. Basta una sola visione per avere un colpo d’occhio totale su ciò che non funziona. Con Dune inizia, per Lynch, un difficile rapporto di amore ed odio con i produttori, che raramente condividono aprioristicamente e completamente le sue scelte artistiche. La durata totale della pellicola sembra dispendiosa, arrivando quasi a toccare le due ore e venti, ma il master finale è addirittura una riduzione sommaria della prima take, che superava le tre ore e mezza ed era considerata troppo estrema. Asciugare il minutaggio, paradossalmente, causa solo ulteriori guai: Lynch perde ogni entusiasmo nella direzione, per le ingerenze troppo pronunciate dei De Laurentiis, e si limita a indirizzare il risultato finale ad un approdo neutro, privo di rischi, deprivandolo di ogni tocco personale. Troppo elaborata la storia, troppo impegnativo il contesto per un semplice compitino: della trama, e dei suoi innumerevoli rivolgimenti, non si riesce a capire praticamente nulla, e se questo sarà l’elemento che contraddistinguerà più a fondo di tutti i lavori degli anni ’90, imperniati su una criptica riedizione del post surrealismo in salsa noir, per un kolossal fantascientifico di tale portata non può risultare altro che un agente fortemente limitante. I ruoli sono spesso mal distribuiti, con un ritmo che fatica a decollare – causa l’oscurità intrinseca della semantica di ciò che accade –, MacLachan interpreta un personaggio di molto superiore alle sue capacità, l’ambiziosa colonna sonora (pièce classiche unite all’AOR dei Toto) dona epicità ma non profondità alle scene, gonfiandole in una sfarzosa parata simbolistica che muore sul nascere. Funziona il lavoro di Rambaldi, ma la regia procede spesso a comando e gli effetti speciali (come quelli utilizzati nella resa degli scudi invisibili), rivisti a latere, si circondano più d’imbarazzo che di grandeur. Il Lynch hollywoodiano, da blockbuster ante litteram, incontra qui il suo decesso artistico.

Scottato dall’esperienza e desideroso di rimettersi al più presto in gioco, il regista si prende un periodo di pausa personale, rituffandosi nella sua antica passione per la pittura. Questo intervallo di stasi sarà vitale, a posteriori, per riprendere energie e ripensare l’intera struttura del suo cinema come un organismo non convenzionale, non omologato, “minore” nel senso relativo delle risorse, ancora più vicino alla visualità di quanto non lo fosse stato in passato. Per la seconda volta alle strette, in meno di un decennio, anche in questa occasione riesce a divincolarsi dalle difficoltà. Il sodalizio coi De Laurentiis, che pure risente del fiasco di Dune, non impedisce di portare a compimento un vecchio progetto, i cui germi risalgono ancora ai primi tumultuosi passi della realizzazione di Eraserhead e la cui realizzazione era stata fino a quel momento impedita sia dagli impegni concomitanti dello stesso Lynch, che dalla sua insoddisfazione personale nell’intreccio della trama. Eppure, Blue Velvet (1986) può essere considerato il film di Lynch: non il suo più riuscito, ma quello che racchiude pienamente – e, per la prima volta, in una sola storia – tutto l’insieme di fissazioni, temi, paranoie, manie che avranno modo di essere approfondite, in maniera più o meno meticolosa, nell’arco degli anni seguenti. “Ours a love I held tightly / Feeling the rapture grow / Like a flame burning brightly / But when she left, gone was the glow of / Blue velvet”, cantava nel 1963 Bobby Vinton: un amore classico, struggente, ma con in seno un che di morboso, di terribilmente attraente. Il quadrilatero che vede schierarsi, da un lato, i “puliti” studenti perbene Jeffrey Beaumont (ancora MacLachan, che si fa perdonare per la precedente prova sottotono) e Sandy Williams (Laura Dern, alla sua prima apparizione lynchiana) contro – contro? – il dark side, l’età adulta corrotta dal magnete sensualità e dall’acido depravazione, incarnata dalle labbra rosso fuoco e dallo sguardo triste della cantante di night Dorothy Vallens (un’immensa Isabella Rossellini) e dal suo Bob, un maniaco schizofrenico e dipendente dal popper (il grande Dennis Hopper, che interpreta Frank Booth) si attira e si respinge attorno a questo punto fisso. L’idea di Blue Velvet nasce nelle periferie cittadine e nelle città periferiche, nelle comunità familiari, nei grandi e curati giardini di fronte alle villette a schiera che monopolizzano lo sguardo dell’homo americanus: l’erba ben curata non può celare allo sguardo la brulicante lotta per la sopravvivenza di un humus tutto sotterraneo (parafrasi dell’”uomo del sottosuolo” dostoevskijano?) e, in una radura al limitare della cittadina, un ragazzo qualsiasi può trovare la chiave per accedere al suo cervello, al suo cuore pulsante: un orecchio tagliato e riverso fra gli steli, abbandonato come un rifiuto, per esempio. Da lì l’opulenza diviene spazzatura, l’esteriorità marciume e decadenza: dietro ogni sorriso c’è un travaglio, il delitto ha giustificazione scientifica e morale, il buono diventa cattivo e, chissà!, forse il cattivo in themselves non esiste davvero, perché in ognuno di noi c’è una certa predisposizione in merito. Con questi presupposti nessuno può vincere, sembra suggerire Lynch. E, in effetti, il finale rivela un cumulo di rovine, di personalità distrutte: il canto di un pettirosso non nasconde l’enormità dell’omicidio, la drasticità di una soluzione non soluzione, perché nulla è cambiato nel profondo, e gli scarafaggi continuano a mangiarsi fra di loro. Come in Eraserhead, homo homini lupus: stavolta, però, in paradiso (e nei sogni, magari quelli di Roy Orbison) non va tutto bene. Forse nemmeno esiste, un paradiso.

Pochi, nelle loro analisi, rilevano la straordinaria negatività che dà vita e forza motrice a Blue Velvet, privo di qualsiasi redenzione, nonostante il (finto) conforto di una conclusione apparentemente in agrodolce. È forse questo il pregio maggiore di un film che, per quanto ossessivo ed oscuro in maniera a tratti soffocante – cova il vicino divorzio del regista con la Fisk, che aprirà la strada ad una relazione con la stessa musa Rossellini? –, non esprime ancora appieno tutte le sue potenzialità. Il final cut, della durata di due ore (a fronte di un’originaria presa che superava le quattro e il cui materiale scartato è andato perduto), è tuttavia un successo travolgente, in patria e all’estero. Lynch si prende la rivincita maggiore: il riscatto grazie ad un’idea che, prima di tutto, è totalmente e compiutamente sua. Sfugge ancora l’Oscar per la miglior regia, andato a Oliver Stone per Platoon, ma ormai l’immensità delle possibilità che si aprono di fronte al regista, forte peraltro di una nuova e solidissima partnership con il genietto italoamericano delle soundtracks Angelo Badalamenti, è incalcolabile. Emerge, qui, tutta la nitidezza e l’inconfondibile pionierismo di uno stile che, forse per la prima volta, si può davvero definire “lynchiano”: se la musica come mezzo per coltivare la suspense ritorna sin dagli inizi – anche se, ora, compare l’effettiva consapevolezza di quanto un contrasto sensoriale possa ulteriormente disturbare lo spettatore (molti registi horror atipici ed eclettici, come il nostro Fulci, ben l’avevano studiato e sperimentato lungo i Seventies, si pensi ad opere come Non si sevizia un paperino e al linciaggio della maciara Bolkan sulle note di Ornella Vanoni) –, rinnovata è l’attenzione verso il cromatismo legato, a doppia mandata, con ogni implicazione psicanalitica di sorta: il che significa, in parole povere, esplosioni di colore, morboso feticismo attorno alla loro consistenza materica, abbinamento audiovisivo in particolari situazioni, simbolismo insito in ogni scelta particolare, buio e luce trattati, nelle loro infinite sfumature, come un’entità singola e non come contrapposizione prettamente cinematografica. Il teatrino di Eraserhead, sipario dell’incubo personale di Henry Spencer, diviene ora l’incubo di ciascuno di noi.

Prosecuzione naturale del discorso intrapreso qualche anno prima, evoluzione conseguente di quanto esposto sopra (il mediometraggio The Cowboy and The Frenchmen, atipica commedia con Harry Dean Stanton e Jack Nance diretta nel 1988, è una deviazione, per quanto leggera e gustosa, che non fa testo) è l’approdo definitivo di Lynch a ciò che amava definire un “medium orrendo”: la televisione. E non una televisione qualunque: il colosso dei network statunitensi American Broadcasting Company. L’iniziale progetto, di realizzare, con lo sceneggiatore Mark Frost, un biopic sulla vita turbolenta di Marilyn Monroe, naufraga nel concreto, ma non nelle intenzioni: sempre da un archetipo di femminilità erotica, bipolare, misteriosa, vagante, tormentata, già schematizzata da Blue Velvet e volonterosa di farsi approfondire, il regista si sente irrimediabilmente attratto. La congerie di elementi tempestosi trova, infine, le fattezze lolitesche, acqua e sapone di Sheryl Lee, bionda e giovanissima attrice nota, da quel momento, come Laura Palmer. È l’inizio, conclamato, di una delle serie televisive più note, seguite ed apprezzate di sempre: Twin Peaks. Tra il 1990 e il 1991, le indagini dell’agente Dale Cooper (un MacLachan alle ultime apparizioni di peso) sul caso della ragazza Palmer, studentessa, figlia dell’avvocato Leland, da tutti conosciuta e stimata, ritrovata priva di vita nel lago di Twin Peaks, catalizzano l’attenzione di milioni di spettatori in tutto il mondo, affascinati da una serie tv che, in barba alle regola precostituite, si ritaglia da sé un proprio, autonomo regolamento interno. Evitando di soffermarsi sulla trama, in verità estremamente complicata e ricca di temi, più comprensibili con lo scorrere delle puntate, è interessante notare come Twin Peaks, aldilà dell’indiscutibile pionierismo concettuale, in grado di scardinare la condizione di comodo preconfezionamento che da sempre richiede implicitamente il pubblico televisivo, sia stato un fenomeno di massa in grado di coniare slogan (Who killed Laura Palmer?), di ottenere l’approvazione di ogni ceto sociale, di individuare un biennio di transizione negli equilibri culturali mondiali ed imprimervi sopra il suo marchio più evidente e perdurante. Lynch – che farà incetta di premi per la sua intuizione – individua perfettamente tutte le possibilità del serial come continuum artistico del romanzo a puntate ottocentesco: un tassello dietro l’altro, il plot si complica anziché spiegarsi, e l’irrazionalità, la paura del fenomenico, la cieca sensazione scatenata da colori e rumori, l’horror diacronico e la commedia di costume, il giallo contorto e cerebrale, le radici ataviche e atemporali di un male cosmico impossibile da debellare si intrecciano in un traliccio di pura, continua invenzione artistica. Laura Palmer è chiaramente un pretesto per mettere in scena, manifestamente, spettri e ipocrisie disvelate, assilli di vario genere e natura (dall’immancabile caffè nero alle telenovele scadenti, due frecciate ben dirette agli stessi fruitori inconsapevoli della serie!), e ciò che sembra un caso come tanti, forse appena più clamoroso degli altri perché nato in seno a una comunità “bene”, è in realtà il proscenio di un dramma tutt’altro che particolare, senza limiti spaziali e senza una spiegazione logica convincente.

Twin Peaks funziona finché la sua incomunicabilità di fondo, la consapevolezza dell’impossibilità di arrivare ad una conclusione (finanche negativa) rimangono salde. Quando, nel bel mezzo della seconda serie, contro il parere di Lynch, l’ABC comincia a premere perché venga rivelato il nome dell’assassino, il pubblico televisivo si riscopre tale: affamato di hic et nunc take away, pronto a cambiare partito in favore di qualcosa ancora più estremo ed eccitante (la guerra del Golfo, nel nostro caso), altrettanto lesto a dimenticare ciò che è stato. La serie, che per due anni ha modificato radicalmente la cultura globale, viene infine sospesa per il motivo più futile e banale mai pensabile: il calo di ascolti. Non riesce nemmeno il tentativo di accostare, alla finzione narrativa, una serie (American Chronicles) di taglio più documentaristico e informale. Ma Lynch, oramai, può permettersi questo ed altro. Permettersi anche, in ultima battuta, di rovinare lui stesso il suo gioiello, di sfregiarlo con le proprie mani, di riempirlo di chiodi come se fosse un boccone di polenta in mano ad un gerarca del Salò pasoliniano e di gettarlo in pasto, malevolmente, al cane telespettatore. Fire Walks With Me (1992) è, formalmente, il prequel della serie, la pellicola che inquadra la settimana prima della morte di Laura Palmer. Gli avvenimenti, tuttavia, sono disposti secondo un ordine temporale che è, consequenzialmente, distrutto: l’estetica delle immagini diviene così simbolistica ed ermetica da confondere i fan del telefilm e da spiazzare totalmente i neofiti digiuni della trama principale, i dialoghi sfumano nel nonsenso, forme e tonalità infernali si sovrappongono al quadro pittoresco della cittadina statunitense confondendone i tratti somatici in una babele di input sensoriali difficili da decrittare. Fiasco ai botteghini, stroncata dalla critica, l’opera uccide consapevolmente, non senza un certo fascino compiaciuto – ancora una volta – sé stessa. Ogni legaccio viene annullato e la strada, ora, è più libera che mai, libera di reinventarsi, in completa autarchia.

Ciò che segue al 1992 è, con ogni probabilità, il periodo artistico più ricco e fecondo di David Lynch, suggerito dall’inventiva trasbordante che demolisce, dall’interno, il road movie di Wild At Heart (1990), tratto da un romanzo di Barry Gifford e girato, con Nicholas Cage, Laura Dern e Willem Dafoe – nel ruolo di un grandioso, laido Bobby Peru – tra gli altri, subito dopo l’episodio pilota di Twin Peaks, condensato filmico poco sotto le due ore canoniche. È un lavoro, sostanzialmente, più curioso che essenziale senso strictu, specialmente per come dipinge, con nuances di oscurità e perversione, la storia d’amore tra Sailor Ripley e Lula Pace ostacolata, in tutte le maniere, dalla madre di lei, Marietta Fortune (Diana Ladd). Non così facile riesce il compito alla platinatissima Fortune, che deve scontrarsi col carattere fiero di Ripley vestito in una giacca di pelle di serpente, “simbolo della mia individualità e della mia fede nella libertà personale”: un perfetto ritratto di Lynch che scapoccia a ritmo dei Powermad, insomma. Nemmeno il carcere, per una rapina finita con morto involontario, riuscirà a bloccare la liason tra i due giovani, senza soldi e in procinto di diventare genitori, quand’ecco… è stato tutto solo un sogno, o c’è del vero? La confusione tra mondo onirico e mondo reale, e le loro definizioni specifiche, comincia a montare in maniera prepotente a partire da qui. Wild At Heart vince la palma d’oro come miglior film a Cannes, per intercessione di un Bertolucci presidente di giuria poco meno che stregato dalle atmosfere “storte” di una pellicola che inframmezza pulp e tensione, sequenze notturne fortemente sibilline (inquietantissima e quasi fuori luogo, for instance, Grace Zabriskie che lega, tortura e uccide Harry Dean Stanton) e finte distensioni conclusive. Lynch si congederà dalla televisione prima con On The Air (1992), commedia surreale degli equivoci, e poi con Hotel Room (1993), film a puntate – tre in totale – di cui due dirette da lui. Ancora diverso è il contesto che modella questo progetto. Il mistero è, per l’ennesima volta, legato ad un omicidio femminile di cui non vengono specificate circostanze temporali e spaziali, ma lo squallore delle ambientazioni, lo spicciolo grigiore che aleggia sui personaggi, la degradazione fisica che si proietta su una morale di uomini dimenticati, abbandonati, fondamentalmente soli (è Stanton a reggere la candela) sembrano immettere, in un circolo courbetiano oramai irreversibile, il fondamentale pessimismo di fondo dell’autore. Magia e corporeità, sesso e pulsione, decadenza e follia, il faro dell’Illuminismo che smarrisce la bussola e diviene palcoscenico di spaventosi deliqui: il Lynch migliore di sempre non tarderà ad arrivare.

Un musicista free jazz, sposato con una donna che definire bella è voler tenersi morigerati, è roso dalla gelosia nei suoi confronti: la coppia pubblicamente impeccabile ed affiatata conduce, in realtà, nel privato, un menage stanco ed annoiato, lacerata da conflitti insanabili, da una totale mancanza di fiducia l’uno nell’altro. Lei, si capisce, lo tradisce. E lui? Proprio qui sta il busillis: lui? Lost Highway (1997) lo suggerisce, esplicitamente: lui perde la testa e la uccide, finisce in carcere e viene condannato alla sedia elettrica. Tutto molto semplice. Ma nel mezzo, cosa succede? Renèe e Fred Madison (interpretati, rispettivamente, da una magnetica e sontuosa Patricia Arquette e da Bill Pullman) cominciano ad essere oggetto di misteriose cassette anonime, spedite senza indicazioni sull’uscio della loro lussuosa villa: qualcuno sembra entrato nella loro casa e abbia filmato, senza scopo apparente, la loro stanza, penetrando anche in camera. Non può essere Fred: lui detesta le telecamere perché, gli avvenimenti passati, preferisce scorrerli come se li ricorda lui, non come sono avvenuti veramente. Eppure è Fred quello che, nell’ultima cassetta, compare ai piedi del letto trapuntato di raso rosso, con la moglie smembrata tra le mani. E chi è il pallidissimo uomo misterioso (il redivivo Jack Nance, al suo ultimo ruolo prima della tragica morte prematura) che il sassofonista incontra ad un party in cui Renèe, visibilmente ubriaca, se la fa con Andy (Michael Massese), un viscido individuo legato al mondo della prostituzione e del porno clandestino? Fred sta per venire giustiziato, ma un emicrania in cella gli frantuma in due il cervello. Nella notte, nel penitenziario, succede qualcosa di inspiegabile: Madison svanisce nel nulla. Da allora inizia un altro film, un’altra storia, dove lui è un giovane e prestante meccanico di nome Peter Dayton (Balthazar Getty), finito in gattabuia per motivi ignoti, che se la fa con Alice Wakefield, la meravigliosa moglie di un gangster locale, Dick Laurent (Robert Loggia). Dick Laurent è un nome che aveva sentito anche Fred Madison, al citofono di casa sua… qualcuno gli aveva sussurrato che era morto. E Alice… non assomiglia spaventosamente a Renèe?

Lost Highway è, in due parole, il capolavoro di David Lynch, il suo film più comprensibile e, nello stesso tempo, meno comprensibile. Un paradosso? Niente affatto. Ovunque se ne parla come la pellicola che ha sdoganato alle grandi platee (possibile?) la struttura del nastro di Möbius, una particolare superficie matematica che può essere percorsa su un solo lato, a simboleggiare la ricorsività infinita che le vicende del film, opportunamente ricomposte secondo una plausibile disposizione temporale, assumono. Ciò è sicuramente vero, ma non basta a spiegare il perché di un lavoro così denso, complesso, eppure stranamente decodificabile sul breve termine. Irretito e preparato da Blue Velvet, Twin Peaks e Hotel Room, il regista cala il poker d’assi e rappresenta uno schema, quello noir – spruzzato di sadiche venature umoristiche, a ricordare l’assurdità causale di The Amputee, e frastagliato di insenature pulp, come nel divertente inseguimento in macchina, sulla Mulholland Drive, tra Laurent e uno sfrontato, ahem, sciagurato e sconosciuto automobilista un po’ troppo baldanzoso… – che esacerba le tonalità oscure e violenta la sua stessa natura di genere nato, in fondo, per essere compreso. E per comprendere lo si comprende, Lost Highway, ma mai fino in fondo, mai nel dettaglio, anche dopo dieci, venti, cinquanta visioni. Sfugge sempre qualcosa: una connessione logica, una battuta di contorno, un cambio di inquadratura, una sensazione archiviata nell’inconscio. È terrore quello che si promana, a tratti, dalla cinepresa: l’orrore di non sapere mai troppo bene ciò che si ha di fronte, che è lo stesso orrore dei personaggi. I corridoi bui in cui sprofondano, fino ad annullarsi, le loro silhouette, sono i medesimi visti dagli spettatori, che devono fronteggiare anche l’impulso alla distensione delle improvvise, colorite vampe di erotismo a cui si concedono i curvilinei corpi femminili (eterea la nuda Arquette/Wakefield illuminata, nel mezzo del deserto, dai fari di una decappottabile), impossibilitata da una tensione innaturale, da terribili presagi allucinatori, da scariche epilettiche di luce ed accostamenti vertiginosi di colori, da fiamme che sprizzano sangue, case disintegrate da esplosioni che ritornano integre come in un puzzle, da combattimenti corpo a corpo che si risolvono in selvaggi omicidi dalla scansione rituale (perfetta la miscellanea tra score originale di Badalamenti e brani editi di Rammstein e Marilyn Manson), ancora luci ed ombre, sigarette lasciate e metà ed il lezzo della putrefazione che si diffonde per tutta Los Angeles. “E tu, come ti chiami? Chi cazzo sei tu?”, urla l’uomo misterioso ad un rinato Madison. Che ruolo ricopri?, sembra chiedere Lynch, da che parte stai? Pensi davvero di aver capito ciò che ti circonda, te stesso in primis, o sei così adagiato sulle convenzioni sociali (la famiglia, la rendita, l’apparenza, le belle macchine) da non riuscire nemmeno a definire il tuo nome? I critici applaudono: il pubblico si divide. Molti ne biasimano la tortuosità cerebrale, ad un primo step inaffrontabile: ma le strade, una volta perdute, non possono essere trovate più com’erano state lasciate.

Lost Highway, nella forma e nella sostanza, cambia il cinema. Anzi, lo sconvolge. Srotola il red carpet al thriller sempre più psicologico, all’intreccio sempre più ardito, allo sconquassamento gratuito della linea temporale. Ridefinisce i parametri di predominio e sottomissione psicologica, trascinando di peso l’elemento inconscio e irrazionale – un irrazionale da dentro, non da fuori: l’irrazionale del mediocre chiunque, non dell’antieroe – all’interno del cinema di genere. Mura Buñuel e Lang dentro un blob di anarchica e grandangolare compostezza, tritura l’arte visuale e l’avanguardia, imbastardisce la classicità con ossessioni del tutto personali, riveste di carne e muscoli un ego che s’interroga, febbrilmente, nell’era tecnologica, spostando il baricentro della “mutazione” cronenberghiana nel mare magnum dell’inesplorato, dell’inaccessibile, del proibito. Affascinante pensare che, non a caso, ci sia molto del modus operandi lynchiano nel Memento di Christopher Nolan (2000) e nello scabroso problema di un uomo alla ricerca paranoica della propria identità e, perché no, anche in The Brøken di Sean Ellis (2008) e nel suo doppelganger esistente non esistente: due perle cinematografiche, anomale ed anormali nelle loro caratteristiche, arrivate in seguito a, e certamente influenzate da, Lost Highway.

Inevitabile, giunti a questo traguardo, tirare un po’ il fiato. Il pit stop di Lynch si chiama The Straight Story e si completa, sotto supervisione della Disney, nel 1999. Nulla, a dispetto delle apparenze, viene lasciato al caso. È Mary Sweeney, sceneggiatrice di fiducia del regista e sua terza moglie, per un brevissimo periodo, nel 2006, ad avere l’idea di un altro road movie profondamente “americano” nelle tempistiche, nei paesaggi e, soprattutto nella storia. Lo spunto arriva quando, nel 1994, un vecchio contadino dell’Iowa, Alvin Straight, percorre quasi quattrocento chilometri a bordo di un piccolo tagliaerba per andare a trovare il fratello infartuato nel Wisconsin. L’ideazione della pellicola rimane silente per anni, salvo poi esplodere d’improvviso in tutta la sua schietta, rustica semplicità. A cinquantatrè anni Lynch mette alla prova sé stesso e, a chi gli rinfacciava, con Lost Highway, di essersi arrampicato sugli specchi, nascondendo la mancanza di organicità contenutistica con voli pindarici di abilità tecnica, regala il suo personale, strutturato, spartano film di formazione. Le strade perdute ora confluiscono in un’unica serpentina di bitume, non a caso straight come il protagonista che la percorre e la cui vita, così come quella del fratello, accidentata e funestata da mille difficoltà, giunge ad una conclusione, ancora una volta, lineare. Sotto il pigro srotolarsi della splendida soundtrack di Badalamenti, cullata tra country, songwriting e americana old style, avanza il mezzo a motore di Richard Farnsworth, dimenticato caratterista degli anni sessanta e settanta ed ideale incarnazione, morale e somatica, del suo personaggio. Farnsworth gira la pellicola con una spada di Damocle che gli cala sulla testa: un cancro alle ossa in fase terminale. Ogni sofferenza è patita e non simulata. La vita di Alvin Straight terminerà, presto, assieme alla sua, e l’umanità che inevitabilmente incendia il suo girovagare è rafforzata, minuto per minuto, da un’effettiva aderenza alla realtà che quasi sbalordisce. Straight troverà il fratello, con cui era in lite da diverso tempo, solo dopo un’epopea eroica: non ci sarà posto per l’happy end hollywoodiano ma, semplicemente, per la verità commossa del fatto, per il riconoscimento toccante dell’impresa. “Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?” domanderà, attonito, Lyle/Stanton, sentendosi rispondere, con quella purezza che da sola abbatte ogni tipo di retorica: “Sì, Lyle”. Testimone di una coppia che non ha più nulla da dirsi, in quanto le parole non servono (un bello schiaffo allo zucchero delle commedie americane!), lo stesso cielo stellato a cui ascendeva, quasi vent’anni prima, l’anima sofferente – ma pacificata – del Merrick di The Elephant Man. Il solo errore del film, a posteriori, è aver preteso, per attore e personaggio, lo stesso destino. Un anno dopo, difatti, Farnsworth, ormai moribondo, si ucciderà nel suo ranch in Nuovo Messico.

Il grande successo di The Straight Story influisce, in maniera determinante, sugli sviluppi successivi del cinema di Lynch. La casa di distribuzione cinematografica francese Canal Plus sceglie di produrre il lungometraggio nello stesso periodo in cui, paradossalmente, il regista subisce un ritorno di fiamma nei confronti delle potenzialità comunicative della televisione, entrando nuovamente in trattativa con ABC per la realizzazione di una seconda serie, a dieci anni di distanza da Twin Peaks, che possa ritornare sui temi originari, riletti alla luce di una sensibilità autoriale che non teme ormai confronti con nessuno. Sulla scrittura del cineasta pesa ancora, però, l’astuta ricercatezza di Lost Highway, che lo porta ad ideare un episodio pilota fiume, oltre le quattro ore, estremamente più visionario e frammentario della sua vecchia creatura. A dispetto di chi crede che il progresso sia figlio delle nuove ere, la modernità richiede, invero, sintesi e comprensibilità immediata. L’ABC del Nuovo Millennio non cerca più l’idea distinguibile, un gancio “forte” che possa aiutarla ad uscire da una crisi di competitività, e il prodotto pensato da Lynch non è certo qualcosa di facile a monetizzarsi. Il net è tanto pronunciato quanto definitivo: le porte si chiudono, una volta per sempre, e l’episodio rimane in cantina. Errore fatale, perché è allora che interviene Canal Plus, acquistando i diritti del girato e chiedendo al regista, in cambio, di operare tagli selettivi e di riconvertire il formato telefilm in pellicola vera e propria. In completa indipendenza, Lynch si risiede al tavolo di lavoro, elimina alcune parti e ne aggiunge altre, tende un filo invisibile tra i vari spezzoni e presenta il risultato conclusivo alla compagnia.

Dieci piccoli indizi, disseminati dal regista stesso nell’edizione angloamericana del dvd, rendono da subito manifesto come Mulholland Drive, ad oltre dieci anni dalla sua uscita, sia il suo film da sempre più discusso, interpretato, esaltato, criticato, magnificato. Nulla di davvero incomprensibile, in verità, per chi esce da una visione, magari molto fresca, di Lost Highway, di cui Mulholland Drive spesso rappresenta una variazione sul tema, un viaggio senza prigionieri nell’inestricabile ed inspiegabile intrico delle pulsioni inconsce dove, alla contundente fisicità del noir, si sostituisce lo spessore di un dramma esistenziale schizofrenico, paranoico, allucinato. Laddove Patricia Arquette dava contorni e movenze, in un unico fisico, al demonio castano e al lussurioso angelo platinato, il gioco dei riflessi qui si sdoppia in due entità ben distinte tra di loro, la conturbante ispanica Laura Harring e l’algida australiana Naomi Watts, entrambe impegnate in due superbe prove attoriali. Il mondo di Los Angeles si deforma, si miniaturizza, si decompone attorno a due donne, yin e yang di un archetipo erotico indissolubilmente legato alla visione della “donna” come potentissimo agente modificante della realtà fattuale. Il tradimento si consuma, questa volta, in una coppia già popolarmente chiacchierata e dibattuta come “diversa” – Diane Selwyn e Camilla Rhodes sono lesbiche –, additata a vista, segnata dal peccato: l’adulterio è, dunque, allo stesso tempo, contrappasso per la loro relazione e duplice trasgressione, imperdonabile. Quando la Rhodes, star hollywoodiana di successo di iperglicemici e qualitativamente discutibili melange, sceglierà di voltare faccia alla compagna, coltivando una tresca con il regista del suo ultimo film Adam Kesher (Justin Theroux) e convocandola appositamente, in una cena sfarzosa nella villa del cineasta sulle colline della città – che ricorda, in diacronia, fosse altro per la falsità dell’apparenza, l’innaturalezza di pose e sorrisi, il ferocissimo contrasto interiore tra gli invitati, il paradossale “ultimo pasto” di Eraserhead – per annunciarle il venturo matrimonio, è la classica goccia che fa traboccare il vaso. La psicologia di Diane/Watts, volitiva comparsa da due soldi intrufolatasi nel tempio del cinema grazie ad una serie di fortuite coincidenze, e da lì assurta ad una mediocre notorietà solo per la sua relazione con Camilla, sotto l’ombra della quale ha sempre continuato a vivere, si frantuma definitivamente, in un vortice di folle livore – l’esacerbazione di un amore troppo potente, di una sofferenza inestinguibile – che la porta ad optare, irrazionalmente, per la soluzione estrema, da sempre ricorrente nelle pellicole di Lynch. In Heaven everything is fine, cantava la donna del radiatore nell’esordio su lunga distanza del direttore, ma il paradiso è in realtà una bugia, ci avvertiva già in Blue Velvet, e qui se ne ha la piena conferma: il corrosivo rimorso che attanaglia la donna per le conseguenze drastiche di un gesto insensato la porta a sprofondare in una depressione fondissima, insanabile, che la divorerà voracemente spingendola, a sua volta, a porre termine, di sua mano, alla propria esistenza, scomparendo nella volgare massa di una pallottola, coperta dal fumo di una pistola, dimenticata da tutti, senza speranza di una vita ultraterrena.

Già potente, di per sé, il semplice racconto. Ciò che attira l’attenzione dello spettatore è, però, il come esso viene esplicitato. Le vicende occupano non più di mezz’ora, l’ultima, del film, confuse in un turbinio di stacchi, in un montaggio rapido e tagliente, in un’ondivaga messa in scena che perpetuamente mescola tempo e spazio – ricostruire minuziosamente la cronologia è, forse, il compito più arduo –, semanticamente strette tra allucinazione e avvenimento reale, tra sogno (proiezione di desiderio?) ed oggettività. Mulholland Drive è forse il film più psicanalitico di Lynch, perché la condizione larvale e prostrata in cui piomba la bionda protagonista è suggerita da sguardi, dettagli, seghetti uditivi, colori accesissimi ed in alternanza rigorosa, simbolica, significante. I telefoni, rossi, squillano a vuoto, riflessi nella loro mostruosa tensione da lampade rosse, su comodini in cui bruciano le sigarette accumulate dalla frustrazione e lasciate a metà dal rimpianto. Fiondate di umorismo nero si alternano a segmenti che, nell’economia complessiva della trama, sembrano solamente appendici da cui potrebbe partire un’altra storia, dipanarsi un’altra avventura, che tuttavia non accadrà. Nelle viscere segrete della metropoli si accede non più attraverso le tortuose anse di un orecchio tagliato, ma aprendo una sinuosa scatola blu con una chiave sconosciuta, anch’essa blu. L.A. fa schifo come e più di prima, e con essa la finzione per eccellenza, il suo cinema plastificato e ammodo, falso ed ipocrita. Gli occhi di Naomi Watts sono, questa volta, quelli di una ragazza wannabe tutta rose e fiori, la migrante canadese Betty che, vivendo per un periodo a casa di sua zia Ruth, si ritrova tra i piedi una mora mai vista prima, Rita per convenzione, reduce da un incidente stradale sulla Mulholland Drive che ne ha cancellato l’identità, ricercata da tutto e da tutti. Ed è Betty che, proteggendola dal suo oscuro pericolo, se ne innamora perdutamente, mentre la sua carriera lavorativa inizia a decollare, intrecciandosi con quella di uno sfortunatissimo regista manipolato da gruppi di potere mafioso in incognito (il padrino Badalamenti, qui anche attore, è sardonicamente caricaturale fino alla risata spontanea), che gli impongono l’attrice principale nel film di sua prossima produzione. La chiave – in tutti i sensi – dell’enigma è nascosta tra le pieghe di una tenda rossa (!), sulle assi di uno scalcagnato night club illuminato a giorno da un faro blu, dove non c’è Dorothy Vallens che intona Blue Velvet, ma Rebekah Del Rio che muove le labbra su uno struggente playback di Llorando. Anche l’orchestra che l’accompagna è finta, registrata. Finto e registrato è ciò che stiamo vedendo, che non è nulla di più di ciò che Betty (ma perché Betty, come una cameriera di uno squallido Winkie’s?) desidera ricordarsi. Niente telecamere, ancora una volta. Finto e registrato è questo amore idilliaco. Finta e registrata è l’esistenza incrociata delle due donne. Finta e registrata è la vita come ci piacerebbe intenderla. La vita è un sogno, suggeriva Calderon de la Barca: e se il sogno fosse un incubo?

Da una semplice diversificazione ad un lavoro completamente nuovo, potente, immaginifico. Mulholland Drive non raggiunge del tutto gli apici fiondanti di Lost Highway, ma tanto basta per rivedere la febbrile, snervante eccitazione che ricopriva Lynch al tempo dei suoi esordi in notturna, quando ancora era il culto ed il feticcio di pochi. Gli incassi confermano questa retro virata: appena venti milioni in tutto il mondo. A Cannes l’attenzione è tutta per il cineasta statunitense e la delegazione (Harring, Watts, Theroux) del suo meraviglioso cast. Arriva la seconda palma d’oro, undici anni dopo Wild At Heart, condivisa questa volta con The Man Who Wasn’t There dei fratelli Coen, e il premio della New York Film Critics Association, ma sfugge ancora il premio Oscar, a cui Lynch era stato candidato come miglior regista per la terza volta, che andrà al Ron Howard di A Beautiful Mind. Per Lynch, oggetto di desiderio della stampa specializzata, è arrivato il momento di ritirarsi, temporaneamente, ad altri progetti. Sembra davvero di essere tornati indietro nel tempo e di rivedere, passo dopo passo, i primi movimenti del regista, che ritorna alla forma cortometraggio – sfumato il tramite televisivo, la nuova sfida è quella informatica del proprio sito ufficiale – testando, per la prima volta, il distacco dalla forma “ufficiale” della grana analogica ed approdando ai primi esperimenti in digitale. Il numero di lavori rilasciati, tra il 2001 e il 2004, su davidlynch.com, ha del torrenziale. Vi sono dei veri e propri approcci professionali al mezzo, come gli otto minuti di Darkened Room (2002), ed alcune miniserie, legate fra di loro in maniera non logica e non consequenziale, che risulteranno di importanza topica per il futuro immediato: qui citiamo Axxon N. e Rabbits (2002), quest’ultima così ermetica, e surrealmente orrorifica (tre conigli antropomorfi che, nell’oscurità di una stanza da pranzo, si parlano in maniera criptica, scoordinata ed enigmatica, probabilmente di un fatto di sangue avvenuto tra di loro, e mai esplicitato, che ne ha sconvolto l’esistenza come famiglia e nucleo di persone saldamente vincolate), da rappresentare un ulteriore step verso la ricerca lynchiana dell’alienazione passionale e del grottesco inquieto, a strapiombo sull’inconscio, che si caricherà di ulteriori accenti umoristici – un umorismo, chiaramente, sempre personale e particolare – in Dumbland (2002), otto episodi di animazione in bianco e nero semiprofessionale, dal disegno violento e schematico (protagonista è Randy, un ometto pelato e sdentato perennemente iroso e triviale) e dall’andatura stravagante. Paiono tutti estrosi divertissement di un artista al colmo della propria realizzazione. La spasmodica ricerca, tuttavia, è accuratamente selezionata. In cantiere, il progetto definitivo, il raccoglitore, lo zibaldone di trent’anni di fantasie, stati alterati, fissazioni, ossessioni. Tutto ciò assume un nome solo in prossimità della consegna, a Lynch, del Leone d’Oro alla Carriera, durante il 63° festival del cinema di Venezia, nel 2006. Un fulmine a ciel sereno è la dichiarazione di un nuovo lungometraggio del regista presentato, nel corso della kermesse, fuori concorso: INLAND EMPIRE.

A woman in trouble, recita la tagline della pellicola. Una donna in pericolo. Sembrerebbe, almeno formalmente, di essere a contatto con temi in fondo già conosciuti, già presentiti, già approfonditi. Sembrerebbe. INLAND EMPIRE è – lo diciamo ora, rischiando anche di fare brutte figure in un prossimo futuro – l’ultimo film di David Lynch, il punto di rottura più estremo della sua arte e del cinema moderno, lo sciame sismico che mette a soqquadro ogni certezza precostituita dello spettatore e rende impossibile, non solo dire qualcosa di meglio, ma anche il solo aggiungere, il dire qualcosa in più. Infattibile pensare che Lynch possa sviluppare ulteriormente le sue tematiche con, alle spalle, questo. Un mastodonte. 172’ di completa, assoluta sospensione razionale. La sensualità di Lost Highway stritolata dall’avvilupparsi di Mulholland Drive e sparata nell’iperspazio di Eraserhead, dove a manipolare le leve del destino, gli ingranaggi del cervello c’è, adesso, uno dei conigli di Rabbits. INLAND EMPIRE è la sintesi di tutto il sintetizzabile, la devastante detonazione che corona trent’anni di terrorismo concettuale e stilistico in mutazione continua, perpetua. Tre ore di neo surrealismo privo di trama, di logicità, di ambientazione, di dialogo. Un cannone che spara, a gittata continua, con ingordigia e ferocia, immagini, colori, sensazioni, musiche, rumori, flash abbaglianti ed abissi di tenebra, addosso e sui contorni del viso maturato – ma sempre bellissimo – di una Laura Dern così conquistata dall’idea (ma quale idea, sui generis?) da aver deciso, in autonomia, di co-produrre il film. La Dern è un’attrice di Hollywood impegnata a girare un remake di un film polacco degli anni Venti, sugli tzigani, lasciato incompiuto per la morte dei due protagonisti, uccisi dal marito di lei per essere stati sorpresi in una relazione extraconiugale: o forse no, la Dern è sempre quell’attrice, che se la fa col collega sul set del remake, e a sua volta viene beccata dal consorte, uomo dal temperamento particolarmente vendicativo; no di certo, la Dern è una donnicciola sposata ad un ubriacone senza lavoro fisso, che accoglie in casa sua un serraglio di animali di un circo di artisti nomadi perché lui “ci sa fare, con gli animali”; oppure è una puttana, che aspetta un figlio evidentemente non del marito, sterile, e che per questo viene uccisa, pugnalata a morte da una moglie tradita ed ipnotizzata a dovere, con un cacciavite impiantato nello stomaco che la fa trascinare, agonizzante, sui boulevard di New York, vomitare sangue sulle stelle della Walk of Fame e, infine, morire tra due tossici ed una barbona; anzi, era tutto uno scherzo!, perché durante tutto questo tempo la Dern ha solamente recitato, un film nel film nel film; però la Dern è lacera, come la sua versione polacca che si inerpica su per gli squallidi abitacoli di Varsavia solo per raccontare la sua storia ad un occhialuto, silenzioso uomo sconosciuto, proprietario di un teatro dalle tende rosse in cui si proietta, a corrente alternata, il suo monologo ed il remake sopracitato; un remake che, è chiaro, è destinato a sconfinare nel fatiscente set di Rabbits, quando uno dei tre conigli afferma che “oggi non ha chiamato nessuno” e, puntualmente, il telefono squilla, tra le gelide risate registrate di un pubblico nonsenso, lontanissimo, beffardo.

INLAND EMPIRE è, sostanzialmente, angoscia allo stato puro e primitivo, un continuo bombardamento di sottotrame e temi secondari che si accavallano, furiosamente, diventando primari e poi ancora meno rintracciabili, per la prominenza di altre immagini, altri paesaggi, altre location. È la Polonia e la California, gli anni ’20 e il 2006, il degrado ed il lusso degradante, venticinque personalità insieme intrappolate nella stessa attrice, la possibilità di viaggiare in un tempo sempre meno distinguibile (le nove e quarantacinque? dopo la mezzanotte? di ieri, oggi, o domani?) attraverso misteriosi wormhole, buchi di sigaretta in vestiti di seta e vecchi vinili che gracchiano di una stazione radio chiamata Axxon N.: è, soprattutto, l’umanità sempre uguale che, a dispetto delle mode, degli anni, dei paesi, ad un determinato stimolo risponde rabbiosamente, ciecamente, irrazionalmente. INLAND EMPIRE, a dispetto delle puntuali e sovrabbondanti interpretazioni che cercano di violentarne la natura anarcoide dandone un senso, una struttura ed una trama comprensibile (aspetti che sicuramente possono essere rintracciati, con molta pazienza e meticolosità, ma che sottraggono inutilmente una quantità smodata di energie intellettuali, oltre al piacere selvaggio dell’esperienza visiva), è il più grande manifesto di sfiducia e disprezzo firmato, da Lynch, nei confronti dell’essere umano, il grado estremo di pessimismo che parte da un debole caso particolare per irraggiarsi immediatamente a tutto il cosmo: è il ritratto di un’umanità disintegrata da sé stessa, incapace di sollevarsi, tra un’ospitata in un talk show di chiacchiere e lustrini ed un ballo di gruppo sulle note della versione di Sinnerman di Nina Simone. La futilità e la vacuità che spariscono di fronte all’enormità delle proprie epopee, della sconfinata smisuratezza dei propri dolori. È forse vero quanto afferma la raggelante Grace Zabriskie, medium-vicina di casa che prevede il futuro alla prima Dern dei minuti iniziali: non ci resta altro che la magia. La magia e, nell’impossibilità di tenere conto delle realtà e dei mondi che partorisce, fagocita e risputa fuori la nostra stessa mente, la capacità di sospendere il giudizio. Magari finiremo per appoggiarci ad una colonna di una villa lussuosa, guardandoci attorno e, tra i fumi di uno stordimento non specificato, esclamare estaticamente: “Bello!”. Così come avrebbe fatto Henry Spencer, nell’abbraccio metafisico con i suoi desideri di una vita normale in una dimensione ultraterrena.

Il carattere assoluto e perentorio di INLAND EMPIRE, atto finale di una supernova sbocciata impetuosamente con le spine di Eraserhead ed altrettanto opulentemente collassata nelle spire di un Moloch imprendibile, lascia ben impresse a fondo le sue tracce in quella che, sommariamente, si può definire la parentesi artistica del Lynch post-2006. Rada la produzione cinematografica senso strictu che, in sei anni, si limita ad un paio di uscite antologiche, a qualche cortometraggio (il surreale Boat, del 2007, in cui è anche attore e Caronte di un’imbarcazione lanciata verso il nulla: i tre episodi di Intervalometer Experiment, dello stesso anno, come Scissors, presentato a Cannes; Lady Blue Shanghai, promo per Dior) e alla direzione di video musicali (Moby, Duran Duran). Proprio la musica è il terreno in cui si muove, oggi, l’interesse del Lynch postmoderno, archiviata (per sempre?) la carriera registica. Non un esperimento nato ex nihilo, giacché – parallelamente alla sua storica passione per la pittura e le arti visive – il Lynch metartistico nasce ufficiosamente nel 1990, con la realizzazione scenografica di Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Broken Hearted, pièce teatrale ispirata da alcune tele giovanili del cineasta e commissionata dalla Brooklyn Academy of Music di New York, incentrata sulla fine turbolenta di una storia d’amore, con parte del cast di Wild At Heart (Cage, la Dern), impreziosita dalle musiche del fido Badalamenti e di Julee Cruise. Più tarda la produzione musicale autografa, che già durante la scrittura di Eraserhead aveva avuto modo di maturare in un paio di brani poi utilizzati nello score ufficiale: dopo la collaborazione con Danger Mouse e Sparklehorse in Dark Night Of The Soul (2009), nell’autunno del 2011 arriva il suo primo disco da solista, Crazy Clown Time. È un disco lynchiano sino al midollo, dove i downtempo jazzati sono scaglionati da ambientazioni twang, immaginari sensuali, western noir narcolettici, lunghi recital androidi con base elettronica minimale, magniloquenti ouverture che si sciolgono in dolenti ed intimistici ritratti. C’è tutto Lynch: l’uomo ironico, il genio artistico, lo sperimentatore dei contrasti. Nel bene e nel male, un’altra grande prova.

VALUTAZIONI

Lungometraggi

Eraserhead 10/10

The Elephant Man 9/10

Dune 5/10

Blue Velvet 6,5/10

Wild At Heart 7/10

Fire Walks With Me 7/10

Lost Highway 10/10

The Straight Story 8/10

Mulholland Drive 9,5/10

INLAND EMPIRE 10/10

Cortometraggi (la lista si limita a quelli visionati)

Six Figures Getting Sick 6/10

Absurd Encounter With Fear 8,5/10

Fictitious Anacin Commercial 7/10

The Alphabet 7,5/10

The Grandmother 9/10

The Amputee 7/10

The Cowboy and The Frenchmen 7/10

Premonition Following an Evil Deed 8/10

Darkened Room 6,5/10

Boat 6,5/10

Scissors 8/10

Lady Blue Shanghai 6/10

Serie tv (la lista si limita a quelle visionate)

Twin Peaks 9/10

On The Air 6,5/10

Hotel Room 8,5/10

Axxon N. 7/10

Rabbits 9/10

Dumbland 8/10

Discografia

Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Broken Hearted 7,5/10

Crazy Clown Time 8/10

 

Marco Biasio

R Film di David Lynch

Eraserhead10/10

Eraserhead
Horror
di David Lynch (American Film Institute (AFI), Libra Films 1977)

C’est ne pas un compte rendu. Così, tanto per cominciare, in barba ai detrattori di Magritte. Questa non è una recensione. Avete mai letto, d’altro canto, una recensione su “Eraserhead”? Mi spiego: non un articolo, non un commento… una...
The Elephant Man10/10

The Elephant Man
Drammatico
di David Lynch (Brooks Film 1980)

Obnubilati e corrotti dai terrificanti luoghi comuni sull'esteriorità delle persone, coloro che incuriositi dalle notizie circa il fatto che il povero mostro fosse incredibilmente in realtà un perfetto gentleman inglese, si avvicineranno ad esso...
Dune7/10

Dune
Fantascienza
di David Lynch (Dino De Laurentiis Cinematografica 1984)

Il mistero intorno alla prima pellicola di fantascienza del visionario David Lynch è immenso e al regista di Eraserhead è sempre piaciuto apparire come un incompreso al pubblico e ai critici. Quando decise di lavorare alla trasposizione...
Velluto Blu8/10

Velluto Blu
Thriller
di David Lynch (Dino De Laurentiis Cinematografica 1986)

Lynch al servizio di una storia di investigazione costruita in un modo che non si era mai visto: riesce a fare un film sui sentimenti anche sprofondando nel delirio del crimine e delle perversioni, approdando ad un lieto fine che è come una...
Una Storia Vera8/10

Una Storia Vera
Avventura
di David Lynch (Asymmetrical Productions, Canal+, Channel Four Films, CiBy 2000, Les Films Alain Sarde, Studio Canal 1999)

E' un film che ti avvolge questo di David Lynch, lontano dal surrealismo di altre pellicole che lo hanno imposto sulla scena internazionale. Una storia semplice, ma ricca di sentimenti, di umanità, mai banale. La storia di Alvin che per visitare il...
Mulholland Drive10/10

Mulholland Drive
Giallo
di David Lynch (Les Films Alain Sarde, Asymmetrical Productions, StudioCanal, The Picture Factory 2001)

Puoi mentire agli altri, ma non a te stesso. Puoi costruire una vita sulle bugie, far finta di essere ciò che non sei, ammantarti di ambizioni ed utopie, ma non ti dovrai stupire se le tue fatiche, prima o poi, si sgretoleranno come un fragile...
INLAND EMPIRE - L'Impero Della Mente6/10

INLAND EMPIRE - L'Impero Della Mente
Grottesco
di David Lynch (Studio Canal 2006)

Dura quasi tre ore. Diretto da David Lynch ed intepretato e co-prodotto dalla sua musa di sempre dai tempi di Velluto blu, cioè Laura Dern, è un film che quando era stato presentato al Festival di Venezia aveva sconcertato tutti. Francamente e...