A Recensione di “Sergej M. Ejzenstein, la corazzata Potemkin” di Maurizio Del Ministro

Recensione di “Sergej M. Ejzenstein, la corazzata Potemkin” di Maurizio Del Ministro

Diciamo subito che il titolo del libro curato da Maurizio Del Ministro ed edito da Lindau è fuorviante. L'opera infatti, più che un'analisi critica incentrata sul capolavoro La corazzata Potemkin (a cui comunque è dedicata una cospicua parte di una trentina di pagine), è invece di fatto una monografia che introduce sull'attività complessiva del regista sovietico, offrendone uno spaccato critico dell'intera filmografia e ricostruendone tematiche, metodi e teorie. Questo è lo spazio coperto dai primi due capitoli, ma succosa è pure l'antologia critica comprendente estratti (dai testi più vari: memorie, recensioni, trattati) sia di Ejzenstein sia di altri cinefili e critici cinematografici (tra cui spicca per interesse un breve brano di Pasolini assai polemico con il realismo socialista).

La bravura di Del Ministro sta nel presentare i contenuti di modo da mostrare, seppur in maniera talora implicita, il nesso inestricabile e dialettico tra il contenuto profondamente rivoluzionario e proletario e la radicalità artistica messa in scena da Ejzenstein. Sul primo punto sono numerosi i passaggi che sgombrano il campo da ogni dubbio. Ad esempio:

Biologicamente siamo mortali ma immortali diventiamo per i nostri atti sociali, per il piccolo contributo individuale che rechiamo al progresso della società nell'ideale staffetta della storia”. Ejzenstein non è uno di quegli autori per cui vige il principio de “l'arte per l'arte”, anzi si rimane incuriositi dal fatto che fin da giovane il suo proposito dichiarato fosse quello iconoclasta (quasi “pre-punk”) di distruggere l'arte; salvo poi rimanere ammaliato da tale strumento, rendendosi anche conto che, opportunamente governato, questa potesse svolgere un ruolo importantissimo per il progresso umano portato avanti dalla Rivoluzione bolscevica:

Influenzare le menti attraverso l'arte rappresentava qualcosa, dopo tutto. E se il giovane Stato proletario voleva assolvere gli importanti compiti cui era chiamato, doveva esercitare una grande influenza sul cuore e sulla mente delle persone”.

Ejzenstein come intellettuale organico della rivoluzione d'Ottobre dunque, capace di realizzare capolavori politicizzati come Sciopero!, La Corazzata Potemkin (che inizialmente nelle proiezioni di Mosca fu un mezzo fiasco, salvo essere poi riscoperto dopo il trionfo tributato in Occidente), Ottobre, La Linea di Condotta e Alexander Nevskij, adattandosi di volta in volta alle richieste ed alle necessità culturali e politiche poste dal governo sovietico. Eppure è incontestabile che spesso venne colpito da provvedimenti che ne limitavano l'attività artistica, come è il caso de Que Viva Mexico! e Il prato di Bezin. Secondo Del Ministro, che segue un nutrito filone a riguardo, l'autore, peraltro omosessuale, sarebbe stato duramente represso dal “regime stalinista”, al punto da concepire la trilogia “Ivan il Terribile” come una critica allusiva dello stalinismo. In realtà niente di tutto ciò traspare dalle fonti né dalle dichiarazioni dello stesso regista. L'opera anzi, venne sostenuta dallo stesso Stalin, che ne approvò i contenuti tesi a ritrarre un Ivan “oppresso dal dubbio circa gli sforzi e il limite dei mezzi da usare per intraprendere un'azione contro i nemici della vita e dello Stato”.

Lo stesso Del Ministro infatti pone poi la questione in senso astratto e universale: “Ejzenstein, come Machiavelli, pone il suo principe crudelmente di fronte alle dure e tristi esigenze del suo compito:

«Gli si affaccia il dubbio se combattere il male con il male, la frode con la frode, la violenza con la violenza, il tradimento con il tradimento, renda possibile riportare la comunità al vero ordine della sua forma politica»”.

Il vero motivo di contrasto tra Ejzenstein e il PCUS non stava quindi in una divergenza di vedute politiche, né tantomeno sulla volontà di condannare l'omosessualità del regista (di cui peraltro vengono riportati molteplici interpretazioni omoerotiche su diversi passaggi della sua filmografia, senza che si citi nessun provvedimento censorio a riguardo), quanto piuttosto l'accusa di eccessivo formalismo che sbatteva contro le istanze realiste socialiste promosse dalla politica culturale di Zdanov. Il che può essere criticabile o meno, ma che non trova mai in ogni caso una polemica diretta ed esplicita da parte di Ejzenstein, che anzi ribadisce sempre la propria visione dialettica e unitaria nell'intreccio politico-artistico, come emerge ad esempio da questo passaggio dove cita espressamente Engels:

Una rappresentazione esatta dell'universo, della sua evoluzione e di quella dell'umanità, e il riflesso di questa evoluzione nei cervelli degli uomini possono quindi essere ottenuti soltanto con metodo dialettico, per mezzo di una costante considerazione dell'influenza generale, del divenire e del perire, delle mutazioni evolutive e involutive”.

Ejzenstein crede appassionatamente in una nuova estetica e ritiene il cinema la “sintesi come unità organica” tra le arti “della pittura, del teatro, della musica, della scultura, dell'architettura, della danza, del paesaggio e dell'uomo, della immagine visiva e della parola”. Il cinema diventa quindi quella nuova arte dove “la forma è sempre un'ideologia reale”, in grado quindi di correggere la natura, “anzi l'arte stessa è natura”.

Vere e proprie chicche sono alcuni passaggi riportati riguardo agli intellettuali borghesi, la cui produzione non viene certamente rifiutata, ma assorbita e introiettata storicamente al fine di proporne un avanzamento, nella consapevolezza cioè dei limiti dell'arte borghese. Si legga a riguardo quando viene detto di Joyce:

Penso che l'Ulisse di Joyce sia la vetta più alta mai toccata dalla letteratura borghese. Ho detto con chiarezza che con letteratura borghese intendo una letteratura che non si pone l'obbiettivo di contribuire alla liquidazione della borghesia (questo è il compito di una letteratura proletaria) se non in modo relativo e settoriale [...]”.

Tranchant poi il giudizio dato sul premio Nobel per la letteratura Pirandello:

non sono un suo ammiratore. E se dovessi cercarmi un autore, non mi rivolgerei a lui.

Ma Ejzenstein era comunque un artista poliedrico capace di trarre insegnamento dagli influssi culturali più disparati, come ad esempio la filosofia e Weltanschauung cinese (con la sua struttura dualistica Yin e Yang), il teatro Kabuki e il meglio dell'arte occidentale passata (Balzac, Leonardo Da Vinci) e contemporanea (tra cui un'attenzione preminente al cinema americano). Passando per le tematiche del rapporto vita-morte e per l'ampio utilizzo delle metafore di animalizzazione degli uomini violentati dal grande Capitale. Un regista unico. Sicuramente da riscoprire.

Per approfondire: http://www.lindau.it/schedaLibro.asp?idLibro=1588

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