A A proposito di The Hateful Eight

A proposito di The Hateful Eight

 

La virtù della pazienza può essere il vero e proprio tema di The Hateful Eight, secondo western consecutivo girato da Quentin Tarantino. La pazienza di Jody nel liberare l’amata sorella con l’aiuto della sua banda, così come la pazienza di John Ruth nel portare Domergue dal boia a Red Rock, ovviamente. Ma soprattutto la pazienza dello spettatore nell’attesa dell’evoluzione della storia. Tarantino sorprende, soprattutto nella prima ora, quando dà vita ad una presentazione dei personaggi decisamente soporifera e allungata all’eccesso. È l’inizio più lento della filmografia del regista americano, dopo il primo quarto d’ora di Bastardi senza gloria, e a un certo punto lo spettatore (paradossalmente spazientito)  si chiede dove voglia arrivare il regista con questa attesa così estenuante, pensando che oramai abbia finito la sua propulsione creativa. Nella prima ora infatti Tarantino rimane in una dimensione più intima, preferendo soffermarsi sui particolari come il gioco di sguardi tra Marquis Warren e Daisy Domergue o la ripetizione spasmodica di alcuni gesti o alcune frasi. In alcuni dialoghi ci si aspetta un colpo a sorpresa, un dialogo assurdo come in Pulp Fiction o una sparatoria come in Django Unchained. Il regista sembra però  accorgersene e attendere sornione, come se in un immaginario dialogo con lo spettatore gli schiacciasse l’occhio e gli dicesse “Aspetta e non ti preoccupare, ci sarà tempo anche per questo”. Dall’arrivo all’emporio di Minnie comincia lentamente un altro film e i colpi di scena si evolvono come un Sirtaki che procede a ritmo sempre più spedito. Nella lunga scena claustrofobica all’intero dell’emporio, con l’incessante rumore del vento in sottofondo, Tarantino sembra essere tornato alle Iene con diversi personaggi in una stanza, ognuno con il proprio gioco, con le proprie bugie e le proprie verità. Se il pregio principale di Django Unchained erano i diversi personaggi e l’assurdità di alcune scene, The Hateful Eight brilla soprattutto nell’intreccio e nell’evoluzione della storia. Manca sicuramente il ritmo che ha caratterizzato quasi tutti i film di Tarantino, così come non c’è la scena memorabile che fa sobbalzare ma l’opera sembra quasi far leva su una genialità più matura e pensata. I personaggi appaiono inizialmente molto più rigidi nei loro ruoli ma anche in questo caso si tratta di un’evoluzione che parte lenta e poi si modifica rapidamente.  Alla fine del film si rischia di rimanere quasi scombussolati dal cambio di ritmo e valutazioni  e la sottigliezza di alcuni particolari descrittivi viene compresa a freddo, dopo diverse riflessioni.

In quanto ad eccessi splatter, nella seconda parte è il solito Tarantino, esagerato come ai tempi di Kill Bill mentre sono sensibilmente ridotte le citazioni di opere non sue. Fa eccezione il bell’omaggio a C’era una volta il west di Sergio Leone nella descrizione dell’uccisione del figlio del generale Sanford Smithers ad opera del maggiore Marquis Warren. Sono invece evidenti i riferimenti ad altre sue pellicole tanto che The Hateful Eight può essere considerato un figlio legittimo di tutti i suoi film che va di pari passo con l’evoluzione dei tempi.

Tarantino ha basato tutta la sua carriera sul gusto della beffa e dell’assurdo. In questo film sembra volersi divertire con  le frasi fatte che sostengono che “Tarantino oramai non ha più nulla da dire” o “Questo sicuramente non è il miglior film di Tarantino” assecondando nella prima metà dell’opera il luogo comune per poi colpire con un intreccio geniale nella seconda fase. Il cineasta americano oramai ha più di  cinquant’anni e probabilmente sta passando inconsapevolmente ad un nuovo modo di fare cinema, con un’ironia e dei canoni diversi rispetto agli esordi. Un’originalità meno di pancia e più di testa, meno esagerata e più sottile ma forse più profonda. The Hateful Eight non ha sicuramente la genialità di Bastardi senza gloria o l’irriverenza di Pulp Fiction e lo straordinario intreccio non può certo dargli lo status di capolavoro. Non mi stupirei però nell’immaginare questo film come capostipite della seconda parte della carriera di Tarantino, con opere di livello simile o addirittura superiore a quelli del passato. Non ci resta che attendere e vedere come evolverà la carriera del regista americano, ripensando a questo film e alla sua complessità.

Samuel L. Jackson e Jennifer Jason Leigh svettano su tutti, notevole anche la prova degli “aficionados” Tim Roth e Kurt Russel. Immagini e scenografie stupende, così come l’attenzione per i particolari ma questa non è certo una novità per i film del regista statunitense. Meritevole la colonna sonora di Ennio Morricone, anche se in caso di vittoria agli Oscar sarà legittima la considerazione: “ma come, non l’ha vinto con Mission e l’ha vinto con questo?”.

In ogni caso film da vedere e su cui riflettere.

 

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