A 50 anni de I pugni in tasca

50 anni de I pugni in tasca

 

Cinquant’anni fa suscitò un giustificato clamore l’uscita nelle sale cinematografiche del film I pugni in tasca, opera d’esordio dell’allora regista ventiseienne Marco Bellocchio. Il film provocò un ampio dibattito e agli albori del ’68 divenne il simbolo di una nuova generazione che reclamava la sua diversità. L’interesse e l’innovazione dell’opera derivarono soprattutto dall’enorme carica di violenza in ambito familiare descritta da Bellocchio e dal fatto che i personaggi divennero un manifesto delle patologie individuali e sociali dell’individuo dell’epoca. La critica si divise, soprattutto per la paura suscitata dalla storia descritta dal regista nativo di Bobbio. Alcuni giornalisti dell’epoca liquidarono il film come una mera descrizione degli effetti dell’epilessia, evitando di approfondire i cambiamenti sociali descritti in modo così crudo da Bellocchio. Altri intellettuali invece riuscirono a comprendere il profondo significato innovativo dell’opera come Jean de Baroncelli che su Le Monde scrisse: "Attaccando direttamente la cellula familiare, che è in Italia la meglio protetta e la più rispettata di tutto il corpo sociale, denunciando con una violenza sbalorditiva la commedia dei buoni sentimenti che regge le relazioni tra i genitori e i figli e dei figli tra di loro, Marco Bellocchio si rivolta anche contro tutte le altre convenzioni, morali, religiose e borghesi che soffocano i suoi eroi".

Per celebrare il mezzo secolo dall’uscita il film è stato riproposto in diverse rassegne e ci si è posti l’interrogativo di quanto l’opera sia attuale al giorno d’oggi dopo i diversi eventi storici che hanno cambiato profondamente i valori e i costumi della società. Lo stesso Bellocchio in un’intervista del 2013 affermò come  "La cosa che colpisce di più, oltre a una storia che dà ancora turbamenti è che questo film conserva ancora una forza, continua ad avere qualcosa di insolito, un coraggio e una volontà di non adeguarsi ai modelli dell'epoca". Non si può certo dare torto al cineasta emiliano, visto che l’impatto emotivo dell’opera rimane pressoché intatto a distanza di cinquant’anni ma alla luce dei vari cambiamenti storici si può dare una diversa interpretazione all’enorme carica di rabbia e violenza presente nel film.

I pugni in tasca è un film incentrato esclusivamente sul presente, è la descrizione dell’autodistruzione dei valori di una famiglia borghese. Potrebbe essere paragonato ad un’accurata descrizione di una guerra civile senza però parlare dei motivi che hanno portato all’evolversi del conflitto. Nel lungometraggio non c’è alcun cenno né storico né psicanalitico che rimanda al perché di tutta quella rabbia, che non può ovviamente essere limitato alla malattia dei protagonisti perché altrimenti verrebbe meno ogni significato sociale dell’opera. Bellocchio presupponeva che la società borghese di quel tempo sarebbe implosa su sé stessa a causa dei propri valori “malati” e che non si rendeva necessario un approfondimento sul microcosmo familiare per comprenderne la violenza. Da questo punto di vista si può tranquillamente affermare a cinquant’anni di distanza che l’autore de I pugni in tasca aveva torto o comunque non completamente ragione. Sono cambiate tante cose nella famiglia italiana dal 1965 ad oggi, alcuni valori considerati imprescindibili sono via via venuti meno: la donna è fortunatamente più emancipata, non vi è più il padre padrone, i genitori hanno imparato a dialogare con i propri figli fino ad arrivare a situazioni paradossali all’ordine del giorno, con dei piccoli tiranni padroni dell’indirizzo familiare a discapito di figure genitoriali sempre meno autorevoli. Ciò che resta, adesso come nel 1965, è la carica di rabbia che viene canalizzata in contesti sociali considerati accettabili o esplode con gesti sconsiderati che fanno la fortuna dei rotocalchi televisivi.

In uno scambio epistolare tra Bellocchio e Pasolini sul significato del film quest’ultimo sottolineava come sia poco producente cercare di generare uno scandalo all'interno del mondo borghese perché la borghesia è immune a qualsiasi forma di valore civile. Forse ora gran parte delle famiglie italiane può rientrare nell’idea borghese di Pasolini o forse oggi la borghesia non esiste più a discapito di un appiattimento generale che ci rende allo stesso tempo tutti borghesi e tutti schiavizzati. Probabilmente aveva ragione Foucault quando teorizzava in merito ad una società repressiva che produce individui e controlla le masse. Certamente la rabbia e la frustrazione hanno molteplici derivazioni e nel 2015 non ci si può accontentare dello specchietto delle allodole dei vincoli borghesi per spiegare un sentimento dominante e probabilmente insito nella natura dell’uomo sia in quanto individuo che in quanto parte di una società.

A Bellocchio va comunque il merito di essere stato un pioniere nel trattare determinati argomenti in un modo così crudo in un’epoca in cui alcuni valori repressivi erano dati per scontati. I Pugni in tasca è ancor oggi una stupenda analisi di un’ordinaria follia e un validissimo documento per osservare ciò che si stava muovendo prima del ’68 e va quindi analizzato con tutt’ora con interesse.

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