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9/10

The Fake regia di Yeon Sang-ho

Animazione
recensione di Riccardo Serapica

 

In un villaggio di provincia, destinato ad essere sommerso a causa della costruzione di una diga, l’anziano Choi fa costruire una chiesa per il reverendo Sung, chiedendogli di riportare la speranza nelle anime dei poveri concittadini. Nel mentre, dopo una lunga assenza torna in paese Min-chul.

Se esiste ancora qualche scettico riguardo la capacità di un film d’animazione di essere realmente crudo e punitivo , relegandolo alla sfera fiabesca, si dovrebbe ricredere, dopo la visione di The Fake. Il film, diretto dal coreano Yeon Sang-Ho dopo l’acclamato The King of Pigs, è un affresco dirompente e lancinante della condizione miserevole ed in/umana del vivere comunitariamente (in ottica laica e non) e della povertà spirituale e materiale degli abitanti di un villaggio che verrà inondato per costruire una diga. Un luogo (nemmeno la natura si salva dalla contaminazione ) dove non esiste il bianco e neanche il grigio: solo puro nero. Non c’è spazio per nessun aspetto o sentimento positivo ; da questo punto di vista la pellicola è asettica ed impermeabile  come il protagonista  Min-chul ( in una scena ricorda Oh Dae-su di Oldboy ed il suo martello). L’antieroe, rude, violento ed insensibile, per vendetta e per egoismo, vuole smascherare dinnanzi ai suoi concittadini, tra i quali la propria famiglia, le menzogne elargite da presunti profeti che promettono speranza e residenza, non solo terrena, ai futuri sfollati; per questo verrà schivato e più tardi considerato il satana incarnato.

È una discesa alle radici del peccato  dove, ci viene fatto presente, anche l’innocente ed il vinto è peccatore, giacché prostrarsi e strisciare, piangendo ed urlando, alla luce di un falso idolo è sinonimo di debolezza e immoralità; in un caso le colpe si materializzano ed il risultato è una citazione impressionante de Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara.  Falsità, come suggerito dal titolo, è il movente della ricerca focale all’interno del lungometraggio a conferma del suo eccezionale pessimismo poiché sottintende che il raggiungimento della verità sia impossibile od inutile; l’illusione che proviene dal non vero diventa quasi l’unico espediente per vivere. La scelta di un’animazione peculiare (seguendo la linea già tracciata con il primo film di Yeon) che si focalizza sul volto, sui lineamenti somatici e sull’espressività di questi, come a voler sottolineare il realismo e la spigolosità di ciò che ci viene mostrato, contribuisce ad inasprire ulteriormente il tutto. In conclusione, il grande pregio della produzione sudcoreana è di scavare nel fango e nel putridume senza alcun compromesso e di gettare lo spettatore in una spirale di nichilismo e decadimento disturbante, specialmente grazie allo strepitoso e scioccante finale.

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