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8/10

Cantando Sotto La Pioggia regia di Stanley Donen

Musicale
recensione di Leonardo Romano

Don Lockwood e Lina Lamont, due divi del muto, devono affrontare l'arrivo del sonoro. Soprattutto Lina,che ha una voce ridicola e stridula, mal si adatta alla nuova tecnica, Don ed il suo amico Cosmo pensano di salvare l'ultimo film della coppia facendola doppiare da una giovane ragazza dalla promettente carriera, Kathy Selden (di cui Don è innamorato). La gelosia di Lina potrebbe distruggerle la carriera, ma tutto andà per il meglio (carriera ed amore).

E' ritenuto il “miglior musical di tutti i tempi”. Sicuramente è un'esagerazione iperbolica, su cui pesa il beneplacito venuto dai registi della Nouvelle Vague (usa a riabilitare film e registi allora considerati smaccatamente commerciali. Del resto, è stato un certo signor Truffaut che ha fatto assurgere Hitchcock al rango di Autore. Beh, aveva l'occhio lungo...) e che comunque altri musical di grande valore avrebbero fatto la loro comparsa sugli schermi anche nel decennio successivo, ma, almeno per una volta, l'esagerazione e l'entusiasmo dei cineasti francesi non è distante dalla verità.

Senz'altro è la migliore prova da regista di Gene Kelly, il quale poteva comunque fregiarsi di altre notevolissimi gioielli della sua corona (come il rivoluzionario Un giorno a New York o l'allora parzialmente incompreso E' sempre bel tempo), anche se deve dividere gli onori con un altro fuoriclasse arguto ed intelligente come Stanley Donen. E comunque Gene Kelly, come interprete, sa essere sempre comunicativo e baldanzoso senza mai risultare antipatico – cosa non da poco! – a tal punto che si passa sopra anche ai suoi innegabili limiti come cantante. Insomma, canta abbastanza mediocremente, ma è tanto simpatico che non ci si fa caso.

Donald O' Connor, smarcatosi dall'ingombrante presenza di Francis il mulo parlante (fra il serio e il faceto arrivò a lamentarsi di ricevere meno lettere di lui dagli ammiratori), è un degno compare di Gene Kelly, esuberante e bravissimo nella danza e talmente pirotecnico che il numero “Make'em laugh” (clamoroso plagio di “Be a clown” di Cole Porter e doppiato in Italia da un giovane e bravissimo Elio Pandolfi. All'epoca poteva accadere che ci fossero solo alcuni numeri musicali doppiati ed altri lasciati in lingua originale. Perchè? Non è dato sapere) è uno dei più divertenti e memorabili di tutto il cinema musicale hollywoodiano.

Debbie Reynolds, che nel canto - in alcuni frangenti - ricorda vagamente uno dei Mastichini del Mago di Oz (ed infatti “Would you?”, che necessita di una voce più gradevole della sua, è affidata alla doppiatrice Betty Noyes), è comunque pimpante e ci regala una prestazione spiritosa e vivace che esula dai suoi futuri ruoli tendenzialmente conformisti e caramellosetti anzichennò.

Menzione d'onore, candidata all' Oscar (e sicuramente meritevole d'una statuetta. A proposito, questo capolavoro, oggi ammiratissimo, non si è aggiudicato nemmeno un Oscar. Giudicate voi...) va a Jean Hagen (la starnazzante Lina Lamont, doppiata meravigliosamente da una strepitosa Zoe Incrocci), incarna il più perfetto archetipo cinematografico della bionda dal cervello di gallina (nemmeno Marilyn toccherà le sue vette), che sa farsi odiare (ma sa anche rimanerci simpatica) fin dal primo momento in cui apre bocca. Sarà bene precisare che la Hagen era una bravissima attrice dotata di una voce flautata (fu lei stessa a doppiarsi nelle scene in cui Kathy Selden avrebbe dovuto prestare la voce a Lina), quindi la sua interpretazione diventa ancor più sbalorditiva.

Comunque un plauso va anche alla splendida, flessuosa e sexy Cyd Charisse che, con quelle splendide gambe, seduce Gene Kelly nella lunga ed inceccepibile sequenza del balletto d'ambientazione contemporanea da aggiungere alla parte in costume de Il cavaliere della danza. Quello però che rende memorabile il film (oltre alle belle musiche di Nacho Herb Brown, ai costumi splendidi ed alle scenografie fastose ma di un gusto unico, come solo la Hollywood degli anni d'oro sapeva regalare alle platee) è la sceneggiatura di Adolph Green e Betty Comden (tant'è vero che i due ricordano, non senza divertimento e un po' di incredulità forse, l'emozione sincera nata dall'ammirazione del succitato François Truffaut nel trovarsi davanti gli sceneggiatori di Chantons sous la pluie).

Prendendo spunto dalle mille vicende di grandi divi del muto la cui carriera venne stroncata in modo brutale (se non tragico, addirittura) e ribaltandole in chiave comica, il loro copione è un vero gioiello di umorismo, intelligenza ed arguzia. Non senza – com'era ovvio nella Hollywood classica e soprattutto in quella degli Anni Cinquanta – un tocco di ottimismo che non stride affatto: i cattivi (in questo caso Lina Lamont) vengono puniti (venendo ridicolizzati), mentre i buoni (Don e Kathy) vengono premiati (diventando una coppia felice e di successo, sullo schermo e nella vita), ma non per grazia divina come accade in tanti altri musical, bensì grazie alla furbizia dei nostri eroi e all'idiozia altrui.

Mentre il ragguardevole Un americano a Parigi poggiava su una trama inconsistente e banale, Cantando sotto la pioggia” può vantarsi d'avere all'attivo un plot divertente, ben congegnato e ricco di spunti comici irresistibili (quasi tutti affidati, com'era giusto che fosse, alla perfetta Jean Hagen). Sicuramente il fiore all'occhiello del film (canzoni e coreografie a parte, mi pare ovvio) è proprio la sequenza di apertura che è un vero gioiello d'umorismo.

Siamo alla première di Canaglia reale, l'ultimo film della coppia LockwoodLamont (“un binomio indissolubile,come burro e alici”, come afferma in modo querulo una delle immancabili intervistatrici pettegole di Hollywood), in cui Don Lockwood racconta i suoi inizi e l'incontro con Lina: l'amore precoce per il teatro di prosa, i fulminei successi all'insegna della dignità a fianco dell'amico Cosmo Brown e la reciproca simpatia con Lina, collega simpatica e cordiale e così via. Insomma, tutto idilliaco.

Peccato che sullo schermo vediamo com'è andata davvero la storia: “l'amore precoce per il teatro di prosa” è in realtà un bieco imbucarsi nei cinema per vedere qualche filmaccio di mostri o ballichiare il tip tap per rimediare qualche monetina ed esser buttato fuori a calci da una bettola; “i fulminei successi all'insegna della dignità a fianco dell'amico Cosmo Brown” sono in realtà i giorni passati a ripararsi dalla pioggia (“di offerte” millanta Don), a fare il pagliaccio in qualche teatrucolo ed a fare lo stunt man rompicollo; “la reciproca simpatia con Lina, collega simpatica e cordiale” è in realtà un reciproco odio a prima vista. Una scena simile dovrebbe essere mostrata in qualsiasi centro sperimentale di cinematografia sparso sul globo per descrivere che cosa si intende per definire il concetto di “perfezione”.

Perfino nella celeberrima sequenza in cui Kelly canta la canzone che dà il titolo al film (diventata sinonimo di “ottimismo” nel nostro immaginario collettivo; non a caso cantata in una delle scene più crude di Arancia meccanica), non manca un piccolo tocco ironico: Don si trova davanti un poliziotto che lo guarda con uno sguardo di disapprovazione, col quale si giustifica cantando: “I'm singin' and dancin' in the rain” per poi allontanarsi tranquillamente dando con nonchalance il suo ombrello ad un passante.

Forse quello che ha reso inossidabile questo film è stato proprio il suo piglio fresco ed ironico. Un'ironia che non si lascia schiacciare (anzi, forse sovrasta) il fasto delle scene e dei costumi. In più, non sarà fuori luogo notare come la parte romantica della pellicola, l'amore fra Kathy e Don nasca in modo tutt'altro che romantico (lei si fa beffe di lui per il suo comportamento da cascamorto e disprezza la sua professione arrivando a dirgli:”Lei non è che un'ombra sullo schermo”) e non è l'elemento preponderante nel film, benchè sia il motore della vicenda. Cosa tutt'altro che frequente nel cinema musicale, precedente e successivo.

What a glorious feeling” dice uno dei versi di “Singin' in the rain”. Forse è lo stesso “feeling” che hanno sempre provato, da quasi sessant'anni a questa parte, intere generazioni di spettatori ogni qualvolta si avvicinano a questo film così classico (ed il vero classico, tanto per citare Calvino, è quello che, fin dal suo primo apparire, ha un fascino e una forza dirompente che non viene minimamente scalfito dal precipitoso passare del tempo).

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