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10/10

Feng Ai (‘Till Madness Do Us Part) regia di Wang Bing

Documentario
recensione di Giulia Bramati

La vita all’interno di un manicomio cinese scorre lenta. Tra liti, urla e momenti di affetto, i pazienti vengono spesso lasciati soli dai propri medici, la cui unica mansione è quella di somministrare farmaci.

È il capolavoro della 70° Mostra del Cinema di Venezia “Feng Ai”, il nuovo documentario di Wang Bing. Il regista cinese torna per la terza volta al Festival, dopo aver presentato “The Ditch” nel 2010 e “Three Sisters” nel 2012, con cui aveva vinto il Premio Orizzonti per il Miglior Film. Presentato fuori concorso, “Feng Ai” mostra con crudezza la drammatica realtà sociale di un manicomio in cui sono costretti a vivere circa cinquanta uomini.

Girato integralmente con una camera a mano, “Feng Ai” è una profonda immersione nella quotidianità dei pazienti dell’ospedale di Yunnan, nel sud-ovest della Cina. Wang Bing non pone premesse ed evita di presentare l’edificio esternamente con un master shot, limitandosi invece ad inquadrare il claustrofobico ambiente interno al primo piano dove sono rinchiusi i malati, restituendo quel senso di costrizione e di rassegnazione che regna nella struttura.

Sin dall’inizio, si intuisce che tra i pazienti non ci sono solo persone affette da malattia mentale, ma anche uomini violenti o abbandonati dalle proprie famiglie. Si avverte a poco a poco la scarsa attenzione dedicata loro dai medici, che si limitano a somministrare farmaci psicotropici, evitando qualunque tipo di relazionalità. Ci si accorge allora che non c’è programma di risanamento all’interno dell’istituto e che i poveri pazienti non hanno speranza di guarigione. Uno di loro afferma convinto ad un certo punto che stare chiuso qui per troppo tempo ti fa diventare malato di mente.

Costretti a dormire in stanze desolanti, prive di servizi igienici e di pulizia, gli uomini ricoverati perdono la propria dignità, ritrovandosi ad accettare una realtà da cui non possono fuggire, cercando l’affetto dei propri compagni di sventura. E sono i momenti di tenerezza che Wang Bing ricerca attraverso l’occhio della sua macchina da presa, divenuta quasi invisibile per i pazienti, i quali lasciano da parte ogni inibizione e mostrano senza pudore i momenti di rabbia, di violenza, di dispetto, di nudismo e di affetto. Il regista si sofferma sugli sguardi, sottolineando silentemente la condizione di annullamento della persona che ogni paziente sta subendo.

I malati hanno rari contatti con il mondo esterno. Soltanto alcuni di loro ricevono visite dalla famiglia, che Wang Bing non dimentica di documentare. Gli incontri tra uno dei ricoverati e la moglie diventano preziosi momenti di denuncia nei confronti del governo cinese, che non sostiene finanziariamente i malati, ma anzi aggrava il bilancio economico delle loro famiglie, costrette a rinunciare ai cibi più costosi – come la frutta – e a vendere parte dei propri beni per poter pagare dai 20 ai 30 yuan al giorno per il ricovero all’ospedale.

Non vengono mostrati solo incontri, ma anche commiati. Uno dei momenti più delicati del film è l’arrivo di un nuovo paziente, che dà vita a drammatici momenti di smarrimento, lievemente placati dalla scoperta di poter condividere la stanza con altri uomini provenienti dalla sua città. Si avverte un profondo senso di solitudine, che si propaga nel momento in cui l’uomo deve salutare la figlia. La ragazza cerca di rassicurare il padre, promettendogli un imminente ritorno a casa, che difficilmente avverrà.

Verso la fine del documentario, Wang Bing decide di lasciare il manicomio, per seguire Xiao Yan, un paziente che ha avuto il permesso per tornare a casa per dieci giorni. L’uomo è ormai incapace di godere della propria libertà e si limita a passeggiare per le strade a lui un tempo familiari, vagando senza meta, costantemente pedinato dal regista.

Guardando “Feng Ai”, torna alla mente il cinema-verite di Allan King, in particolare uno dei suoi primi lavori, “Warrendale” (1967), dove si mostrava la vita all’interno di un istituto per bambini mentalmente disturbati. E il confronto tra le buone cure adottate dalla struttura canadese negli anni ’60 e le estremamente carenti attenzioni dei medici cinesi ai nostri giorni fa rabbrividire.

Questo splendido documentario fa conoscere al pubblico occidentale una realtà sconosciuta della Repubblica Popolare Cinese, denunciando le condizioni di sofferenza a cui i pazienti del manicomio sono sottoposti. E in fondo, come dice uno dei malati, se uno è pazzo, è pazzo. Ma è così?

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