R Recensione

7/10

My Voice My Life regia di Ruby Yang

Documentario
recensione di Alessandro Giovannini

Il documentario segue l'allestimento del musical The Awakening, messo in piedi da una fondazione di Hong Kong che ha reclutato gli attori tra gli studenti adolescenti che frequentano scuole poco prestigiose e che sono afflitti dai più vari problemi (dalla semplice insicurezza fino a handicap fisici come la cecità).

Ruby Yang è una documentarista cinese quasi sconosciuta in Occidente, sebbene il suo documentario The Blood of Yingzhou District abbia vinto l'Oscar nel 2007. In questo puro e semplice documentario di impegno sociale ha seguito l'operato dei maestri coreografi Emily Chung, Ken Kwan e Nick Ho alle prese con un'allegra banda di adolescenti problematici che mai prima di allora avevano lavorato ad un allestimento teatrale. Il film, come nelle favole più edificanti, conduce inesorabilmente ad un lieto fine fatto di riconciliazione con genitori ostili, superamento delle proprie insicurezze, ritrovate certezze circa la propria vita, sconfitta della propria ansia e così via. Così abbiamo casi di dropout che decidono di riprendere gli studi, immigrati dalla Cina continentale che riescono finalmente a trovare un inserimento sociale, ipovedenti o ciechi totali che riescono a fare i conti sia con il proprio handicap che con i pregiudizi della comunità...

Dicevo di un documentario puro e semplice: in effetti Yang gira con la massima trasparenza possibile, nello stile di un reportage giornalistico che alterna immagini catturate durante le prove dello spettacolo a interviste a ragazzi e insegnanti, per poi seguire occasionalmente qualche studente al di fuori del contesto scolastico, ad esempio nelle loro abitazioni per approfondirne il contesto famigliare. Il film non mira a suscitare commozione, ma è pur vero che viene naturale affezionarsi ai "protagonisti" della vicenda. Si tratta di un film ottimista, positivo, pervicacemente fiducioso nella possibilità di recupero di questi ragazzi, e che non manca di suscitare nello spettatore occidentale una certa fascinazione per l'ex colonia britannica, di cui sono mostrati alcuni scorci tutt'altro che turistici.

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