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7/10

Song From The Forest regia di Michael Obert

Documentario
recensione di Alessandro Giovannini

Louis Sarno (1954, Newark, New Jersey) è un etnomusicologo, da metà anni '80 residente in un villaggio di pigmei Bayaka nel fitto della foresta della Repubblica Centrafricana, dove ha sposato una donna del posto dalla quale ha avuto un figlio, Samedi. Cosa lo ha spinto ad stanziarsi lì? L'ascolto occasionale tramite una stazione radio europea di un brano musicale tipico di quella regione, che lo ha affascinato a tal punto da spingerlo ad inoltrarsi nella regione per registrare quelle musiche, che con la progressiva morte dei membri della tribù ormai nesusno è più in grado di suonare. Ora che il piccolo Samedi inizia ad essere abbastanza cresciuto, Louis decide, avendoglielo promesso, di portarlo con sè in un viaggio alla scoperta del suo paese d'origine, facendogli visitare New York City.

Già vincitore di alcuni premi nei circuiti festivalieri, prossimo a sbarcare nelle sale (almeno quelle statunitensi), Song From The Forest è un documentario antropologico che stupisce in primo luogo per la particolarità delle storie umane che è possibile scovare andando a spulciare quà e là per il mondo. E' anche una piacevole variazione rispetto a molti documentari antropologici degli ultimi tempi, più incentrati su questioni storico-politiche che su vicende individuali. Il film non ricostruisce tutta la vita di Sarno, ma si focalizza sull'anabasi del protagonista, e sul viaggio di scoperta che per Samedi rappresenta lo sbarco in America. Le scelte di regia sono chiare: proporre un'analogia fra la giungla urbana della metropoli e la giungla fisica dell'Africa centrale (con la musica etnica a fare da collante), suggerendo una riflessione su quanto l'uomo moderno occidentale abbia trasformato le proprie abitudini di vita perdendo il contatto con la natura e vivendo in un asettico conglomerato di grigia cementificazione dove il contatto con la natura sembra ormai irrecuperabile. Di come, dal canto opposto, l'esigenza di Sarno di inseguire un'impossibile riconciliazione con l'ambiente naturale lo abbia portato ad abbandonare la modernità per rifugiarsi nel cuore della foresta, dove poter iniziare una nuova vita più a misura d'uomo.

Il documentario è molto meno manicheo di quanto possa sembrare , ed in questa ambiguità sta il suo fascino: il presente/assente regista Michael Olbert (che non prende mai la parola, seguendo la lezione del documentarista silenzioso Frederick Wiseman, ma parlando eccome attraverso il montaggio) sottolinea tutte le contraddizioni di una scelta di vita del genere: per esempio il fatto che la tribù debba comunque contare, per la propria sopravvivenza, sulle conoscenze occidentali in ambito sanitario. Oppure il fatto che Sarno debba ogni tanto tornare alla civiltà a trovare parenti ed amici, e d'altronde la sua stessa missione, ovvero la registrazione delle musiche locali, è finalizzata alla pubblicazione di CD musicali e quindi alla creazione di un prodotto commerciale, da vendere nei circuiti e con la logica del capitalismo occidentale. E non mancano dei momenti-confessione in cui Sarno esprime di fronte alla macchina da presa i suoi dubbi circa la possibilità di far crescere il figlio nella foresta o dargli invece una possibilità nel mondo sviluppato, sebbene dichiari di voler lasciare la scelta ultima al ragazzo (tra l'altro è curioso notare come alcuni africani stessi si premurino di consigliare a Sarno di portar via suo figlio dalla foresta, per farlo crescere in un luogo dove ci siano possibilità di futuro). Il punto è che il mondo idilliaco dei pigmei sembra inesorabilmente destinato a scomparire, e l'idea utopica di Sarno di vivere isolato dal mondo esterno, oltre ad essere appunto una fantasia irrealizzata, rischia di diventare controproducente per il futuro del figlio. Il film pone insomma molte questioni su cui è affascinante riflettere, non ultima una sottile impressione che il regista voglia suggerire allo spettatore come ci sia un certo atteggiamento di superiorità, magari anche inconscia, da parte degli occidentali con cui Sarno ha a che fare. Mi spiego: nel film la parola viene occasionalmente lasciata al fratello di Sarno e addirittura a Jim Jarmush, che fu a suo tempo un compagno di scuola dell'etnomusicologo. Entrambi spendono parole di affetto e stima verso il protagonista, e di rispetto per la sua scelta di vita. Eppure rimane sempre la sensazione che Sarno venga visto un po' come "lo scemo del villaggio", o comunque come un outsider eccentrico che si sta togliendo uno sfizio da neocolonialista. Ho avuto questa sensazione in almeno un paio di scene: una in cui compare solo il fratello di Sarno, che vive in una lussuosa villa con giardino e che mentre si professa a favore della scelta di vita del fratello è impegnato a giocare a golf in un corridoio dell'enorme magione; un'altra in cui Sarno distribuisce alcuni oggetti etnici come dono a Jarmush e compagna, che li accettano e li commentano come si trattasse di souvenir raccolti durante un viaggio esotico. Non so dire se si tratti di una sensazione personale o se fosse un preciso intento registico, ma sono scene che sembrano smentire la grande comprensione che a parole viene espressa nei confronti del protagonista.

Tutte queste ambiguità contribuiscono a rendere il film affascinante e mai banale, lontano dalla pura e semplice glorificazione del protagonista come avrebbe potuto fare un più banale film buonista e terzomondista; questo infatti non è un documentario sui pigmei, sugli uomini di laggiù, bensì sull'uomo occidentale ed il suo rapporto con la realtà ed il mondo che ha costruito; un mondo pieno di storture e problemi, ma da cui non è così facile, anzi forse è ormai impossibile, fuggire alla ricerca di un paradiso perduto, ma verso cui bisogna invece impegnarsi per migliorarlo dal di dentro.

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