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5/10

Le Cinque Variazioni regia di Jørgen Leth

Documentario
recensione di Pasquale D'Aiello

Lars von Trier incontra il suo amico Jørgen Leth, regista di lunga data, e gli propone di girare cinque variazioni di un suo vecchio successo del passato, The Perfect Human (Det perfekte menneske, 1967): ogni variazione, però, dovrà sottostare a ferree regole imposte da von Trier stesso. Jørgen Leth accetta di buon grado, ed anche se durante la lavorazione mostra sgomento per la difficoltà crescente delle regole, affronta la prova e lavora con lo stile di un regista consumato.

Nel 1967 Leth ha girato un cortometraggio dal titolo The perfect Human. Qui un giovane uomo si muove, mangia, si prende cura di se', su uno sfondo bianco. Parla del suo amore perduto, con freddezza, distacco. Senza cogliere il senso delle cose che gli accadono. Una sorta di anatomia dell'essere umano, pone sullo stesso piano le azioni fisiche piu' elementari con i pensieri piu' intimi, senza coglierne differenze. E' questa freddezza che Von Trier attribuisce, come colpa, a Leth. E questa colpa deve essere lavata. Lo strumento di punizione e' questo film che ha il compito di tirare fuori l'uomo, di separarlo dalla perfezione, sentimento molto poco umano per Von Trier. L'uomo di cui si parla e' Leth, in quanto il regista e' "colpevole" delle sue opere che sono espressione di se'. Per compiere questa operazione indurra' Leth a ripetere quel film per quattro volte. Ogni volta sottostando a delle limitazioni tecniche-ambientali. E qui l'altra convinzione dogmatica di Von Trier: la tecnica e l'ambiente diventano sostanza. Per condividere o contestare tale affermazione basta guardare le quattro variazioni e constatare se per persista o meno la freddezza del regista nelle sue successive lavorazioni. Ma l'esito di tale valutazione non e' immediato e niente affatto scontato. Da qui l'ultima variazione che e' una vera e propria degenerazione in quanto non viene piu' ripetuto The perfect Human ma Leth si limita a leggere un testo di Von Trier e a firmarne fittiziamente la regia. In questo testo Von Trier si immedesima in Leth e accusa sé stesso di aver fallito nel suo progetto. Un gioco di specchi, incroci e scambi per lasciarci un'ultimo sguardo sul cinema che resta, pur sempre e nonostante tutto, una grande illusione (ma cosi' simile alla vita).

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