R Recensione

8/10

Registe, Dialogando su una Lametta regia di Diana Dell'Erba

Documentario
recensione di Antonio Falcone

Un viaggio nel mondo del cinema italiano attraverso uno sguardo attento e sensibile, per scoprire la storia della regia femminile dagli esordi sino ad oggi, fra pregiudizi, imposizioni produttive, limitazioni,  dove il percorso per emergere, tracciato dalla passione, coincide con l’affermazione definitiva di sé, in un continuo confronto con le proprie ed altrui capacità che porterà infine ad affrancarsi da qualsivoglia pregiudizio.

Esordio alla regia di Diana Dell’Erba dopo i trascorsi in qualità di attrice che l’hanno vista prendere parte a vari film e cortometraggi (Vincere, 2009, Marco Bellocchio; Rasputin e il mistero di Dante, 2013, Louis Nero; La donna della toilette, 2007, Alberto Viavattene), Registe, dialogando su una lametta è un’opera prima, in forma di docufilm, i cui pregi sono ascrivibili non soltanto agli indubbi meriti squisitamente tecnici che le sono certo propri, quali una regia ed un montaggio abbastanza “agili” nel mescolare realtà e ricostruzione storica, i felici intarsi dal sapore immaginifico a fare da introduzione e poi raccordo al susseguirsi della narrazione, affidati simbolicamente alle nuove generazioni, un valido contrappunto sonoro, con le musiche originali di Giulio Castagnoli eseguite dall’Orchestra Femminile Italiana, ma anche, ed in particolare, alle attente annotazioni sociologiche, storiche e di costume che si stagliano sullo schermo per bocca delle varie registe intervistate, con preziosi interventi, inoltre, di noti critici cinematografici (Anselma Dell’Olio, Eliana Lo Castro Napoli,Gian Luigi Rondi, Silvana Silvestri).

Lina Wertmüller, Cecilia Mangini, Francesca Archibugi, Wilma Labate, Francesca Comencini, giusto per citare alcune fra le autrici intervistate, narrano quindi  le loro esperienze all’interno di un settore ritenuto, come tante altre professioni, territorio esclusivamente maschile (statistiche alla mano, su 100 registi sette sono donne, un dato coincidente con le posizioni assunte nei vari ruoli di responsabilità), fra pregiudizi, imposizioni produttive, scarso spirito collaborativo,  dove il percorso per emergere, tracciato dalla passione, dalla voglia di raccontare, di mettere in scena una storia, un vissuto particolare, determinate esperienze di vita, con i toni prescelti dell’ironia, del dramma, della satira, del sentimento,  quando non della denuncia sociale, coincide con l’affermazione definitiva di sé, in un continuo confronto con le proprie ed altrui capacità che porterà infine ad affrancarsi da ogni pregiudizio o stereotipo di sorta. Rilevante al riguardo il fil rouge fra le varie esperienze narrate rappresentato dalla figura della regista Elvira Notari (nata Elvira Coda, 1875-1946, interpretata da Maria de Medeiros, capace di offrire al personaggio rilevanti sfumature di dolcezza e determinazione,  unite ad  una certa dolente rassegnazione), che fra il 1906 e il 1930 diresse più di cento film, fra documentari e pellicole a soggetto.

In un periodo precedente il regime fascista (quando la sua opera sarà osteggiata a causa dei contenuti piuttosto realistici), in cui il cinema, accolto con favore dalle masse, propendeva ad un’organizzazione orizzontale (non vi era alcun verticismo fra i vari ruoli, tutti dovevano saper fare di tutto, come spiega Anselma Dell’Olio) e la donna in Italia era sotto la tutela del padre o del marito, priva del diritto di voto, impossibilitata ad accedere ad alcune professioni, Elvira Notari, maestra e modista,  mise  su insieme al marito Nicola, nel 1906, una casa di produzione (Films Dora, in seguito Dora Film, con una sede anche in America dal 1925, visto il successo qui ottenuto dalle sue opere), dando vita ad una particolare realtà imprenditoriale privata (lei si occupava della regia, del montaggio, delle storie, lui delle scene, delle luci, della colorazione delle pellicole, i figli Dora ed Edoardo lavoravano come attori). Insieme alla Notari vi furono altre importanti figure, man mano riscoperte a partire dagli anni Settanta, con l’avvento del Femminismo (generalmente erano poco considerate dai grandi Soloni della critica cinematografica, per lo più uomini) quando iniziava a farsi strada, per quanto sempre a fatica, l’idea di una regia al femminile, volta, tranne qualche eccezione (come Wertmüller e Cavani, a loro volta diversificate nei generi affrontati), perlopiù al documentario, favorita da una rivoluzione culturale ed anche tecnologica (la camera portatile, ad esempio).

Registe, dialogando su una lametta, titolo quanto mai emblematico di come ancora possa essere rischioso affrontare un discorso sulle pari opportunità nel nostro paese, fra dietrologie ed atavici pregiudizi duri a morire, sempre presenti e senza il rischio di generalizzare, rappresenta la visualizzazione concreta della tesi con la quale Dell’Erba si è laureata in Sociologia (Donne alla macchina da presa. Uno sguardo di genere sulla regia), e si palesa in definitiva come un film piuttosto coinvolgente, piacevolmente costruito, attraverso l’incrociarsi delle varie interviste e il loro confluire nel suddetto excursus storico, sull’alternarsi di sensibilità, emotività ed intimità scaturente con forza realistica dai tanti ricordi o aneddoti narrati. Tematiche come la vita sociale, il lavoro, la famiglia, raccontate attraverso il vissuto di donne appartenenti a diverse generazioni, rendono evidenti  tanto i mutamenti avvenuti nello scorrere del tempo, quanto ciò che invece è ancora passibile di cambiamento, nel fermo e concreto auspicio che divenga definitivo l’annientamento di qualsivoglia negatività volta ad impedire quell’effettiva emancipazione ed autodeterminazione, individuale e collettiva, consona al poter scegliere, con forza e convinzione, la propria essenza vitale, sociale e lavorativa.

 

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