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9/10

Otello regia di Orson Welles

Artistico-allegorico
recensione di Stefano Lorusso

Durante il periodo delle Repubbliche Marinare, Otello, detto il moro di Venezia, viene inviato dal doge a difendere la roccaforte di Cipro dai musulmani, dopo il su matrimonio con la bella e nobile Desdemona.

Avendo scelto Cassio come aiutante, Otello provoca invidia e gelosia nel perfido Jago, che comincia ad insinuare dubbi sulla fedeltà della moglie.

Con un artificio, il subdolo Jago crea l'incidente del fazzoletto di Desdemona. A questo punto l'ingenuo Otello gli crede e folle di gelosia...

Otello: racconto perfetto e sublime di violente passioni, di accecanti gelosie, di odiosi tradimenti, di sottarranee macchinazioni. In quella che è forse la più potente delle tragedie di William Shakespeare, risplendono personaggi oramai iscritti nella dimensione del mito: Il Moro, Iago, Desdemona, Cassio. Burattini sciocchi e infelici nelle mani di un sapiente manovratore che ottunde ed illumina, che rischiara ed eclissa, che annoda e che scioglie i lacci del racconto con assoluta maestria.

Capolavoro letterario che (raro caso) "partorisce" un vivido capolavoro per immagini. Welles/Shakespeare, autori veri entrambi, così lontani e così vicini. Welles/Shakespeare: nella forza di un bianco e nero contrastatissimo non si smarrisce nemmeno un granello di quel vigore testuale, di quella violenza espressiva che sorregge l'opera del Bardo di Avon. Bianco o nero: sono bandite le mezze misure nell' Othello. E Orson Welles era uno che alle mezze misure non ci si è mai adattato...

Memorabile, magnifica, terribile sequenza iniziale di barbarica e tellurica bellezza, ad aprire la visione del film. Ombre nere (le brucianti passioni degli uomini) ritagliano nette ed oblique il loro spazio vitale (in realtà uno spazio di morte, perchè alla morte e "la morte" conducono) sul cielo terso di campi lunghi fuori dal tempo. I presagi più funesti hanno già assunto la "forma" corporea di due cadaveri. Nei tagli espressionisti e nel gioco architettonico dei pieni/vuoti, avanza lenta e solenne una processione di uomini e croci. 

Impossibile liberarsi di simili impressioni sensoriali, impossibile sgombrare il campo (visivo ed emozionale) da simili apparizioni, impossibile non cadere prigionieri della fascinazione che esplode in questi fotogrammi. A seguire, il grandioso ludus wellesiano si dipana in un forsennato succedersi di inquadrature sghembe (debitrici dei Numi dell'espressionismo tedesco), di roboanti barocchismi figurativi, di liberissimi movimenti di macchina.

A fare da collante un montaggio frenetico, che in un fiammeggiante mosaico di immagini congiunge frammenti di fulminea durata (con Iago protagonista, personaggio sfuggente e sfingeo nella sua diabolica perversione) a piani sequenza più pacatamente sviluppati (momenti che in genere definiscono la gigantesca figura di Othello, la più grande vittima della perfida macchinazione del suo servo). Contrappunti stilistici per marcare la profonda diversità "di spirito" dei due protagonisti, quindi: il corruttore e il corrotto, il perfido ingannatore e l'innocente ingannato.

Entrambi pedine di una partita a scacchi giocata dai demoni delle istintualità umane. Monumentale prova attoriale di Micheal MacLiammoir, da molti definito "il più grande Jago della storia del cinema", di luciferina malignità e ferocia. Per non parlare del magnifico Moro Wellesiano, in cui le concessioni all'enfasi sono spesso intelligentemente tenute a freno da un lavoro di scavo psicologico decisamente riuscito.

Girato nell'arco di quattro lunghi anni (1949-1952) tra l'Italia e il Marocco, il film conobbe non poche traversie in fase di produzione, compreso il fallimento della casa che aveva accettato originariamente di sostenere il progetto. Molto complesso nell'uso delle scenografie, raggiunge proprio grazie alla costruzione di quel "realismo fittizio" così indispensabile nel cinema (a differenza del teatro) la sua piena dignità di capolavoro cinematografico.

Nel precedente Macbeth, Welles compiendo una scelta radicalmente diversa (quella di rinunciare quasi del tutto alla scenografia e alla costruzione della messa in scena) aveva finito per far soccombere il film sotto la scure della teatralità. In Otello questo pericolo è fugato e superato attraverso l'uso cosciente e articolato degli spazi scenografici. Sempre all'insegna della estrema (e tuttavia ricercata e voluta) frammentazione e destrutturazione del testoWelles in Otello gioca persino mescolando le carte dei luoghi dell'azione. Le chilometriche distanze tra set diversi e lontanissimi si possono suturare attraverso l'astuta manipolazione del montato.

In un'intervista lo stesso Welles avrà modo di dire, con il suo impavido tono autocompiaciuto: "Iago esce dal portico della chiesa di Torcello, un'isola della laguna veneta, per entrare in una cisterna portoghese. Ha attraversato e cambiato continente nel bel mezzo di una frase. In Otello succede continuamente. Una scala toscana si prolunga in un terrapieno marocchino per costituire uno spazio unico. Roderigo colpisce Cassio a Mazagan e Cassio restituisce il colpo ad Orvieto, a mille miglia di distanza". E' la falsificante e strafottente genialità wellesiana all'opera. E' il beffardo gusto dello scherzo, tipico del grande Orson. Prendere o lasciare. F per falso, quindi...ma falso d'autore. Un grandissimo falso d'autore.

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