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R Recensione

7/10

Yves Saint Laurent regia di Jalil Lespert

Biografico
recensione di Alice Grisa

1962. Dopo la morte di Christian Dior, il giovane Yves Saint Laurent, chiamato a sostituirlo, apre la propria personale casa di moda. Al suo fianco il compagno, l'amico e il socio di una vita, Pierre Bergé che, ormai anziano, racconta sogno, ascesa e discesa dell'uomo che ha amato più di chiunque altro.

Nel fashion system è Yves a essere struttura e Pierre sovrastruttura, o forse sarebbe più opportuno dire il contrario? In questo prodotto uniformemente bio di Jalil Lespert, biopic, biostyle, bioart non è possibile isolare le personalità degli amanti per ricavare le singole specificità, quando a legarli è l’amour fou.

La scansione temporale ha un’ossatura classicamente a cornice: il vecchio Pierre Bergé (Guillaime Gallienne de la Comédie-Française) ricorda il compagno scomparso tra flashback, commozione e rimpianti. Attraverso il filtro-Bergé scopriamo Yves Saint Laurent (Pierre Niney “de la Comédie-Française”) ritratto come un genio nervoso, nevrotico, nevrastenico, enfant prodige della moda ma incapace di presentarsi a una visita militare.

Dietro un grande uomo c’è sempre un grande manager. Pierre, come un Geppetto invisibile, si occupa di tutti gli aspetti che rendono Yves possibile. Si parte da un giovane stilista ventenne a Parigi, dalla scalata alla maison Dior fino al conflitto umano ed esistenziale per le agitazioni in Algeria, dove vive la famiglia. Saint Laurent è impotente di fronte al mondo, perché l’unica cosa che riesce a fare è creare abiti.

Il protagonista è moda per indole naturale, per un animo febbrile che non trova pace se non disegnando e che riesce a entrare nell’immaginario con un’arte nata con lo scopo primordiale di trovare sollievo ai fantasmi della mente. Quello del genio non è un mistero scrutabile: Bergé, soggetto, lo vive e lo racconta come un oggetto fragile e unico, come le creazioni YSL, su cui sono puntati tutti i riflettori in una parabola che lega la storia alla malattia mentre l’astro e l’estro di Yves brillano sempre più sfolgoranti.

Il film è estremamente visivo e i modelli di YSL sono stupefacenti, dai primi tentativi post-emancipazione Dior alle contaminazioni con l’arte di Warhol, Mondrian, Matisse e con gli stili esotici. Tormentato e irrisolto, Yves scava nelle stoffe alla ricerca di un’identità e in questo modo lancia una nuova femminilità con il trench, il blazer, lo smoking feminine. Sofisticato e innovatore, lanciato sulla strada inevitabile dell’autodistuzione, Saint Laurent è “inetichettabile” sul piano professionale e sociale quanto in chiave di gender.

I problemi di quest’opera sono lo sfociare verso il modello narrativo della fiction e un eccessivo didascalismo; a questo proposito ci si potrebbe chiedere se non sia forse il documentario l’unico modo possibile di raccontare un uomo così controverso sulla traccia del binomio genio & follia (L’amor fou del 2010 si esprime in questo linguaggio).

L’algerino Lespert preferisce concentrarsi nella prima parte sui temi dell’arte in senso assoluto e sul rapporto con la politica, le armi, la gestione degli affetti e nella seconda sul sempre più preponderante lato oscuro dello stilista. La modella Victoire turba corde profonde in Yves, non solo come personificazione di una moda ideale ma anche come generatore di gelosie e oggetto per le frontiere del quasi-possibile; lo stilista si mantiene omosessuale ma Victoire accende di fantasie la quotidianità di un mondo in cui gli uomini pensano a vestire le donne. I tre attori sono bravissimi a costruire una sorta di Jules et Jim a carte rimescolate, un film nel film dove niente è come sembra e neanche come non sembra.

Il film in definitiva si rivela il racconto di un uomo non convenzionale messo in forma con modalità a volte troppo convenzionali. Ma l’atmosfera è autentica, grazie soprattutto ai modelli haute couture presenti, alla scenografia e alla colonna sonora. La grandezza del personaggio, che incanta e travolge, arriva perfettamente allo spettatore.

 

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