R Recensione

8/10

Voir du Pays regia di Delphine Coulin, Muriel Coulin

Drammatico
recensione di Marco Catenacci

Una squadra dell’esercito francese (tra cui le due donne protagoniste), dopo una missione in Afghanistan, si trova in un lussuoso albergo di Cipro per svolgere una terapia di riabilitazione alla quotidianità, prima di poter tornare finalmente a casa.  

Voir du Pays, il secondo film di Delphine e Muriel Coulin, è prima di tutto un film sulle distanze. Non (solo) geografiche ovviamente, ma distanze tra le cose, in senso ampio, intimo ed intimista, profondamente interiorizzato. Sono distanze tra persone, o meglio, distanze della mente e del ricordo, di una persona con se stessa e il suo traumatico vissuto. La vicenda si svolge in un lussuoso albergo di Cipro, dove un gruppo di soldati dell’esercito francese, uomini e donne di ritorno da una missione in Afghanistan, sta svolgendo un breve corso di riabilitazione alla quotidianità; tale terapia diventa allora un momento necessario attraverso cui ricostruire le distanze tra trauma (della guerra) e normalità, ristabilire un equilibrio inevitabilmente compromesso, uscire da una realtà sconvolgente per poter finalmente (ri)entrare in una realtà a lungo dimenticata. Si, perché in Voir du pays la realtà, nelle sue molteplici e intercambiabili forme, è sempre al centro della questione. Durante questo soggiorno-terapia, i reduci sono sottoposti a diverse sessioni di realtà virtuale, attraverso cui il loro racconto (ricordo) viene trasformato immediatamente in immagine, proiettata su uno schermo (che coincide esattamente con il bordo dell’inquadratura) alle spalle del soldato che di volta in volta viene chiamato ad esporre la propria versione di un evento. E ancora, il corpo di tale soggetto, sovrapposto alle immagini proiettate, sembra essere quasi sospeso tra le due realtà, tra le due dimensioni: da un lato, di fronte a lui, la realtà, il presente, dall’altro, alle sue spalle, la rappresentazione per immagini del ricordo, traumatico passato. Ancora un annullamento della distanza, dunque: quella tra primo piano e sfondo, tra presente e ricostruzione virtuale del passato, e soprattutto quella tra ricordo e immagine. Voir du pays ruota spesso attorno a quest’ultima questione: il percorso cui vengono sottoposti i soldati si configura allora come un tentativo di contornare le immagini sfumate del ricordo al fine di renderle immagini reali (attraverso la virtualizzazione), e poter in questo modo affrontare direttamente il trauma. All’interno dell’albergo in cui si svolge la vicenda, la narrazione si focalizza su due donne soldato, perennemente isolate e in conflitto con gli altri membri della squadra di cui fanno parte. Seguiamo i loro discorsi e i loro pensieri, vediamo le ferite sul loro corpo e ad un certo punto le osserviamo nel tentativo di riavvicinarsi al genere maschile in un rapporto che esuli dal solo cameratismo militare. Anche in questo senso, si tratta di un percorso di riavvicinamento alla quotidianità, che alla fine però si rivela particolarmente problematico: in un contesto così forte e traumatico, ristabilire le distanze (tra ricordo e immagine, tra trauma e normalità, tra guerra e riposo), non è mai così facile. La realtà, quella crudele della guerra e della violenza, è sempre lì, in agguato, vicinissima, anche quando si ha l’impressione di averla lasciata a molti chilometri di distanza. “Devi sempre trovarti un nemico”, rimprovera ad un certo punto una delle due protagoniste ad un suo compagno militare. Non importa se in Afghanistan o a Cipro o dentro lo stesso esercito. Oggi che un viaggio da una zona di guerra ad un albergo a cinque stelle può essere visualizzato (virtualizzato) su uno schermo o che le zone vicine a casa propria possono essere esplorate semplicemente spostando due dita su un display, tutto si ripresenta ovunque e fuggire è un’impresa. Perché tutte le destinazioni possibili sono lì, scritte sullo stesso tabellone dell’aeroporto, raggiungibili da chiunque, in qualsiasi momento.

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