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7/10

Trainwreck - Un disastro di ragazza regia di Judd Apatow

Commedia
recensione di Fulvia Massimi

Convinta dal padre in tenera età che la monogamia non sia cosa realistica, la trentenne newyorchese Amy Townsend (Amy Schumer) fa del monito paterno uno stile di vita, sbronzandosi ogni sera e andando a letto con uomini che non rivedrà mai più. Quando la direttrice del magazine maschile per cui lavora (Tilda Swinton) le commissiona un articolo su un brillante medico sportivo (Bill Hader), le convinzioni di Amy sulle relazioni sentimentali verranno tuttavia messe a dura prova. 

Si tratta soltanto del suo quinto film da regista in quasi venticinque anni di onorata carriera, ma Trainwreck (presentato in questi giorni a Locarno) segna sicuramente un momento importante nella cinematografia di Judd Apatow, produttore e sceneggiatore di certa comicità americana contemporanea (se non della comicità americana con la C maiuscola) che dal suo nome prende il marchio di fabbrica.

Cantore irriverente della bromance omosociale e del dudeismo auto-ironico (SuxbadStrafumatiFratellastri a 40 anni, solo per citarne alcuni), ma anche sensibile indagatore di dinamiche familiali e di coppia (Molto IncintaFunny PeopleThis is 40), Apatow lascia il timone della sceneggiatura per la prima volta nella sua filmografia e abbandona i territori confortevoli della virilità protagonista – anche se a corto di testosterone – per scoprire piuttosto il proprio lato più apertamente femminile, complice la collaborazione con la comica in ascesa Amy Schumer, già autrice del suo stesso one woman show (Inside Amy Schumer) e qui in veste duplice di sceneggiatrice e attrice.

Vagamente ispirato all’esperienza auto-biografica della Schumer – sia nel suo rapporto con il padre malato (qui interpretato da un burbero Colin Quinn) che nell’aneddotica dei suoi spettacoli di stand up comedy (vedi la confessione shock durante il baby shower della sorella Kim/Brie Larson) – Trainwreck aspira a ribaltare i cliché della commedia romantica tradizionale, arrivando tuttavia alle medesime conclusioni, quando il ritratto della “donna moderna che fa quello che vuole” cozza infine con i sogni più convenzionali dell’idillio romantico e (forse) del futuro nucleo familiare.

Sara Stewart sul New York Post avrebbe voluto – e a ragione – veder trionfare la crociata di Amy per la singletudine priva di vergorgna, piuttosto che veder ridimensionata la misantropia del suo personaggio grazie all’intervento di un (c’è da dire adorabile) principe azzurro metropolitano. Tuttavia, e anche qui il giudizio è condivisibile, Schumer confeziona uno script esilarante, capace di sovvertire gli stilemi di gender della comicità convenzionalmente al maschile (lo scapolo d’oro convertito alla monogamia dalla ragazza della porta accanto), dipingendo con umorismo caustico e brillante una sequela di ritratti di mascolinità non conforme agli standard, presi in contropiede da una donna più scafata (e cattiva) di loro.

Dal mite marito in maglioncino da impiegato, al palestrato sensibile afflitto da omosessualità repressa (interpretato da uno spassosissimo Jon Cena), passando attraverso il minorenne con tendenze sado-maso (Ezra Miller in un piccolo ruolo) e la star dell’NBA con afflati di romanticismo poetico (un Lebron James tenerone, anche se col portafoglio sigillato e l’ego smisurato), Trainwreck offre una divertente carrellata di maschi estrogenici, che laddove potrebbe essere letta da un lato come l’incarnazione dell’ideale femminile (improbabile) dell’uomo di sentimento più che d’azione, dall’altro dimostra il piglio salace della Schumer nel ridicolizzare i canoni (altrettanto improbabili) della virilità anabolizzata e senza crepe emotive.

“Fuori dal letto nessuna pietà” cantava Marco Ferradini in Teorema, e la Amy Townsend di Amy Schumer sembra farne proprio il mantra ancor più degli insegnamenti paterni. Versione 2.0 della Bridget Jones di Renée Zellwegger, di cui supera le frustrazioni fisiche e sentimentali, e semmai ne diventa padrona, Amy rifugge i legami per non soffrire, ma anche perchè vivere la propria esistenza nella dipendenza costante dal modello della coppia monogamica è una faccenda francamente sfiancante.

Eppure, alla fine, nonostante tutto, a trionfare è l’animo gentile del romanticone di turno, il dottor Stranamore interpretato con dolcezza infinita da Bill Hader, volto noto del Saturday Night Live (come molti degli attori nel cast) e membro itinerante del clan Apatow (era il collega poliziotto di Seth Rogen in Suxbad), cui Amy, bisbetica domata, si arrende con un’esibizione da cheerleader che – se non fosse per la caduta slapstick che ne conclude la traiettoria – rischierebbe di minare il senso ultimo della sua lotta all’immagine della donna-oggetto esistente soltanto perchè parte di un “noi”.

Produttore di Girls e in parte debitore a Lena Dunham per avergli aperto gli occhi sull’esistenza di una sismance interessante almeno quanto, se non più, della sua controparte maschile, Apatow sembra infine trovarsi a proprio agio nell’universo senza freni ibitori nè peli sulla lingua di Amy Townsend/Schumer, il cui personaggio a trecentosessanta gradi offre anche l’occasione di un’incursione in temi più intimisti (la perdita di una persona cara, la paura delle relazioni impegnate, il senso della famiglia non tradizionale) oltre che nella riuscita sovversione delle dinamiche stereotipate fra i sessi.

Rivestita dalla patina pop della colonna sonora di richiamo (Miley Cyrus subito in azione con la canzone-simbolo del film Do My Thang), degli scorci ormai noti della Grande Mela cinematografica, e dei camei celebri ad hoc (il trio di cronisti/consulenti psicologici Marv AlbertChris EvertMatthew Broderick, ad esempio), la pellicola numero cinque di Apatow è – come d’altronde sempre accade nel suo cinema – commercialmente frivola e appetibile solo ad un primo sguardo, giacchè già al secondo è possibile notare l’interesse per una riflessione metalinguistica che più che alla forma filmica si rivolge alle convenzioni del genere cinematografico.

Ridicolizzato dal finto film in b/n con Daniel Radcliffe e Marisa Tomei, The Dogwalker, il prototipo della romance hollywoodiana standardizzata viene messo alla berlina dalla premiata ditta Schumer-Apatow ma scalfito soltanto in parte. E mentre la voice over di Amy Schumer si augura che il classico montaggio da love story con risvolti alleniani (e una coraggiosa fellatio inaspettata) si trasformi in un massacro suicida alla Jonestown, vien infatti da chiedersi fino a che punto il film di Apatow riesca nell’intento di sfatare i miti della solita rom-com, quando l’happy ending vi si manifesta esattamente come ci si aspetterebbe.

Insomma, se una critica si può muovere a Trainwreck – godevolissimo diversivo estivo da un lato, rivalsa di un senso del cinema al femminile dall’altro – è di non aver colto l’occasione per scacciare del tutto (o quantomeno intimorire) lo spettro marxista che da tempo immemore si aggira sul cinema hollywoodiano: lo spettro del lieto fine romantico a tutti i costi.

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