R Recensione

8/10

RAMS regia di Grimur Hakonarson

Drammatico
recensione di Giulia Betti

In una valle islandese isolata, Gummi e Kiddiley vivono fianco a fianco, badando al gregge di famiglia, considerato uno dei migliori del paese. I due fratelli vengono spesso premiati per le loro preziose pecore appartenenti a un ceppo antichissimo. Benché dividano la terra e conducano la stessa vita, Gummi e Kiddi non si parlano da quarant'anni. Quando una malattia letale colpisce il gregge di Kiddi, minacciando l’intera vallata, le autorità decidono di abbattere tutti gli animali della zona per contenere l’epidemia. È una condanna a morte per gli allevatori, per cui le pecore costituiscono la principale fonte di reddito, e molti abbandonano la loro terra.

 

Il pubblico italiano è pigro, preferisce attendere mesi e guardarselo sulla pay tv un film piuttosto che sfidare il freddo invernale o il caldo estivo ed andare al Cinema.

Il pubblico italiano è povero, stenta a raggiungere la fine del mese e certamente la cultura non è fra le sue priorità, specialmente quando un biglietto per il cinema arriva a costare quanto una cena modesta alla rosticceria cinese sotto casa.

 

Il pubblico italiano è disonesto, non concepisce il reato di pirateria e persegue indisturbato nei suoi traffichini illegali per godersi, con i soliti compagni di merende, la visione su piccolo schermo di uno spettacolo sbiadito, mal sottotitolato, fuori sincrono e afflitto da continui salti d’immagine.

 

Il pubblico italiano è diffidente e xenofobo. Malfidato nei confronti dello straniero. E per straniero intendo il “non conosciuto, l’estraneo”, una paura che non contempla i confini, ma i nomi e i volti. “Un film con Sigorour chi? Mai sentito, m’avessi detto Raul Bova o Leonardo Di Caprio, m’avessi detto Juliette Binoche  o Javier Bardem..ma questo Sigurjonsson io non lo conosco, e certamente non spenderò dei soldi per vederlo recitare!”

È così che andrà. Rams (Arieti), il film diretto da Grimur Hakonarson, vincitore della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2015, rappresenterà l’Islanda ai prossimi Premi Oscar, ma qui in Italia verrà visto solo dai soliti cinéphiles.

Un vero peccato, poiché contrariamente a tanti prodotti nostrani di recente e prossima uscita, Rams ce l’ha davvero qualcosa da raccontare, e lo fa usando pochi dialoghi, gesti quotidiani, espressioni scavate su corpi rocciosi, ma umani. Una umanità ben diversa dalla nostra, tanto esagerata e esteriorizzata da apparire falsa, e forse fasulla lo è pure diventata, una umanità ben diversa dall’immaginario, una empatia, un sentimento, una sofferenza ed un’amore interiori, estranei alla nostra memoria. Forze centripete che nascono da stimoli esterni per raccogliersi nel nucleo recondito dell’individuo e, una volta lì, cristallizzarsi nel buio di una personalità taciuta e non esplicitata.

Rams è ambientato nella contemporaneità, ma ne rinnega le sembianze, indossa abiti talmente moderni da apparire sconosciuti. Sono i costumi d’un altro popolo. Sono i costumi dell’Islanda. Un ecosistema che pare essere incapsulato sottoterra da cent’anni e che una volta scoperchiato mostra ciò che anche noi siamo stati: coltivatori premurosi, allevatori amorevoli e rispettosi nei confronti degli animali e della natura, artigiani appassionati, uomini semplici con semplici valori, interlacciati l’uno all’altro dalle parole conversate o dai messaggi cartacei trasportati da un cane da pastore, piuttosto che da un piccione viaggiatore. No facebook, no twitter, no whatsApp.

Ma Rams è anche la trasposizione d’un mito: Caino e Abele, o d’un altro ancora: Romolo e Remo. Due fratelli che si odiano, due fratelli che si contendono un bottino, un potere, un titolo, il riconoscimento e la stima della comunità. Invidia, gelosia primordiale. Chi possiede il montone migliore? Il timido ed affidabile Gummi o l’ingestibile Kiddi, ubriacone, refrattario alle regole sociali e alla mera convivenza civile?

Un mito senza delitto quello di Rams, poiché un nemico comune ben più potente di loro, la Legge appunto, li unisce nonostante l’inimicizia verso una lotta comune, salvare dall’estinzione l’antica razza di pecore da sempre in possesso della loro famiglia.

Pare quasi, rimanendo nel paragone religioso, che sia stata la mano di un Dio ad infliggere a tutti i greggi del paese una pericolosa epidemia, condannandoli a morte. Una piaga per punire quell’odio familiare, peccato riprovevole. Una maledizione al fine di riportare la pace fra i due fratelli. L’amore, la fedeltà, il perdono.

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