Mulholland Drive regia di David Lynch
GialloIn una notte estiva, su Mulholland Drive si verifica un incidente d'auto. Muoiono tutti sul colpo tranne una donna (Laura Elena Harring), che nello schianto perde la memoria e l'identità. Scendendo le colline in direzione di Los Angeles, troverà rifugio nella villetta di Betty (Naomi Watts), un'aspirante attrice hollywoodiana appena giunta dal Canada. Tra le due donne nascerà un forte legame d'amicizia destinato ad evolversi, progressivamente, in amore passionale. Alla ricerca della vera identità della scampata vittima, Betty e Rita - funzionale pseudonimo sgraffignato alla più famosa Hayworth - si caleranno sempre di più in una realtà colpita dal sole battente, ma nell'intimo tetra ed oscura come gli animi di chi fa ricercare la donna ed interviene, apparentemente senza motivo, per imporre l'attrice protagonista nel nuovo film del regista Adam Kesher (Justin Theroux). Ma chi sono quei danzatori di jitterbug che si vedono ad inizio pellicola? Perché indugiare su un letto di raso? A chi appartiene un telefono rosso fiocamente illuminato? Cosa stiamo vedendo sullo schermo e cosa davvero esiste?
Puoi mentire agli altri, ma non a te stesso. Puoi costruire una vita sulle bugie, far finta di essere ciò che non sei, ammantarti di ambizioni ed utopie, ma non ti dovrai stupire se le tue fatiche, prima o poi, si sgretoleranno come un fragile castello di sabbia. Vincere una deprimente gara canadese di jitterbug e volare negli States per coronare il desiderio di recitare ad Hollywood è una classica happy-ending story da sogno americano: un sogno, per l’appunto, dove le Diane diventano Betty, le Betty Diane, sconosciute bionde dei sobborghi vengono chiamate Camilla e le Camilla, in un eterno ritorno che sfocia pur sempre nella referenzialità cinematografica, Rita. Rita come Rita Hayworth, diva della pellicola anni ’40 immortalata per sempre negli anni della sua fulgida bellezza, lungi dal decrepire o dal mostrare segni di cedimento. Un poster, appiccicato al muro di una stanza da bagno, è ciò che rimane dei tempi che furono. La felicità della realizzazione personale dovrebbe anch’essa godere di tale fortuna, una salamoia cartacea lontana dal tempo e dallo spazio. Ma se una vita vuole essere vissuta e contemplata in ogni suo aspetto, è impossibile riuscire a filtrare con un colino gioie e dolori: impossibile. Una realtà effettuale troppo amara per chi confonde fantasia e verità, wannabe e already been, io e doppelganger, una realtà da soffocare nelle spire di una coperta di raso rosso, in una scatolina misteriosa che solo una chiave blu può aprire, giù per i tornanti di Mulholland Drive.
“È lei la ragazza”
Qualcuno ci rimarrà forse male e rifiuterà di netto una tale “laicizzazione” di contenuto, ma “Mulholland Drive” altro non è che uno spaccato di visionarietà e profondità vertiginose sul più umano dei sentimenti, l’amore, e su quelle escrescenze carnali e psicologiche – simili ai tumori sottocutanei del “Videodrome” cronenberghiano – che sono la gelosia ed il conseguente tradimento. Il tradimento… che cosa orribile, eh? Mercifica le persone come nessuna audizione televisiva sarebbe in grado di fare. Dà un valore agli amici, un prezzo ai nemici, una stima agli estranei. Vola sulle ali della mancata armonia, s’inerpica sulle cime della comunicazione inespressa, implacabile ed inarrestabile. Soprattutto, libera una sconfinata scala di ritorsione: se, in disparità di trattamento, i conti non tornano, unica soluzione appare l’abbraccio al mai tramontato taglione, che rinfocola i peggiori istinti animali sopiti al nostro interno. Dal tradimento non solo non si torna indietro: non si torna uguali. Chiedetelo alla Gwyneth Paltrow incinta di “Sliding Doors”, agli illusionisti in “The Prestige” di Nolan, persino all’industriale milanese che per un punto perse la cappa sul tavolo verde di un amarissimo “Regalo di Natale” avatiano, giusto per citare tre film con niente in comune tra di loro ed ugualmente tanto da spartire. Poi, tornate ad osservare i ciottoli che decorano la piccola abitazione di Diane, o forse era Betty?, metteteli a fuoco, coglietene i colori aldilà delle lacrime, dei rimpianti e delle sgranature: quei ciottoli, nel contempo, rappresentano l’umanità dispersa e disgregata dei protagonisti di “Mulholland Drive”.
“No hay banda! Non c’è… una banda!”
In questo lavoro c’è un pezzo di ciascuno di noi. Ci sono le nostre storie e le nostre paure, i nostri sogni nei sogni ed i peggiori incubi, la libido ed il rimosso, le paranoie ossessive e le pulsioni inconsce. C’è tanto, in primis, dello stregone David Lynch, al tempo reduce dall’atipico e struggente road-movie “The Straight Story” (in italiano “Una storia vera”, 1999) e, prima ancora, da “Lost Highway” (“Strade Perdute”, 1997), un pozzo nero senza fondo in cui far inghiottire le perversioni di “Blue Velvet” e gli inesplicabili misteri della mente umana. Con le punte di diamante Patricia Arquette e Bill Pullman poteva sublimarsi, e concludersi, una delle parabole più esaltanti del weird-seeking doc d’autore del XX secolo. Invece, con l’avanzare dei nuovi tempi e lo scoccare del Nuovo Millennio, Lynch si reinventa e, come ogni maestro che si rispetti, rimescola le carte in tavola con una variazione sul tema. “Mulholland Drive” riparte da dove “Lost Highway” era terminato: dalla voce trafelata di Fred Madison che citofona a sé stesso, annunciando la morte di Dick Laurent, si ha uno shift temporale – ma non diatopico – alla sensualità ultraterrena di una favolosa ed enigmatica donna, interpretata da una magistrale Laura Elena Harring (un’Isabella Rossellini di quindici anni dopo, dallo charme palpabile), passeggera di un oscuro viaggio in limousine. La macchina, all’improvviso, si ferma. “Che sta succedendo? Non dobbiamo fermarci qui”, protesta la donna. La risposta si materializza nella fredda sorpresa di una canna di pistola, rivolta verso di lei e pronta a far fuoco, quand’ecco che un branco di freak sbandati – citazione a “Blow Up” di Antonioni? – sopraggiunge a velocità folle dall’altra parte della corsia, in contromano. Lo schianto è terrificante: tutti rimangono uccisi sul colpo, tranne una persona. Senza più nome, storia, memoria. Le danze possono iniziare.
“Spero di non dover mai vedere quella faccia, quando sono al di fuori del mio sogno”
Una ragnatela di contatti e connessioni. La storia della Harring si lega e si interseca ben presto con quella di Betty (una Naomi Watts ai suoi massimi), attricetta dalle maniere affettate e zuccherose in cerca di fortuna sul Sunset Boulevard, a cui una premurosa zia Ruth (Maya Bond) ha affidato temporaneamente la propria abitazione. È qui che la ragazza scopre la donna misteriosa, nuda sotto la doccia, ancora traumatizzata per l’avvenimento della sera precedente: un primo incontro dalla marcata componente sessuale che, come si vedrà, influenzerà tutto l’andamento dei personaggi. Alla ricerca di indizi utili per ricostruire l’identità perduta, Betty e Rita (nome di fantasia) entrano pian piano a far parte di un quadro molto più grande ed inquietante di loro. Il mancato omicidio e la scomparsa della vittima predestinata su Mulholland Drive catalizza le criptiche e laconiche conversazioni telefoniche di un gruppo di personaggi sconosciuti, privi di volto. La cupola di relazioni occulte apparentemente esistenti tra gli emissari sembra far capo ad un autoritario paraplegico (Michael J. Anderson), inchiodato in una stanza assurdamente spoglia, che comunica con l’esterno solo tramite un cicalino: è sempre lui che ordina di interferire, tramite uomini di fiducia (i mafiosi Castiglione, interpretati dai memorabili Angelo Badalamenti e Dan Hedaya), nella selezione dell’attrice protagonista per il nuovo film in lavorazione del regista Adam Kesher (Justin Theroux). La critica allo scintillio posticcio ed ingannevole di Hollywood, specchietto per le allodole che nasconde il marcio del quotidiano, più concretamente mossa in “INLAND EMPIRE”, viene qui abbozzata con sufficiente vis polemica: tutti si dichiarano amici di Kesher, ma nelle difficoltà egli viene abbandonato, fronteggiando una concatenazione paradossale di eventi infausti che culminano nel tradimento della moglie con il bodyguard, nelle minacce pressanti e crescenti a cui è costretto a cedere e, infine, in un casting farsa dove si susseguono i talenti in cerca della parte richiesta, inconsapevoli che il ruolo sarà assegnato giocoforza ad una sconosciuta Camilla Rhodes (Melissa George). Per una frazione di secondo accade l’impensabile: Betty, di ritorno da un trionfale provino per una squallida soap opera infarcita di mestieranti e stelle in declino, viene accompagnata sul set del film ed incrocia lo sguardo di Kesher. Tutto attorno a loro lo spazio si annulla: il collegamento che si instaura tra attrice e regista è un turbinio di attrazione e repulsione, disgusto ed antipatia assolutamente inspiegabile.
“Qualcuno qui è nei guai… Chi sei tu?”
Nell’ombra, un’imperscrutabile medium coperta da un velo bussa alla porta dell’appartamento di Betty. Rita è terrorizzata che qualcuno, in primis l’intransigente amministratrice Coco (Ann Miller), la scopra – forse non sa che un killer giovane e maldestro sta setacciando la città alla sua ricerca, provocando cortocircuiti e vincolandosi con le puttane di basso borgo – ma la padrona di casa cerca di rassicurarla. Invano. E non occorre aspettare l’ammonimento profetico della stramba condomina per capire che qualcosa non va: non va nei colori, nelle musiche, nelle atmosfere, nello svolgimento dell’azione. Un germe malato insito nelle pieghe del dipanarsi del racconto. Betty e Rita si rendono conto che la loro non è definibile come semplice amicizia. Lo scoprono una notte, dopo aver seguito una possibile traccia a nome “Diane Selwyn” ed essere arrivati alla meta con un cadavere in bella vista, riverso su un letto. Betty intuisce il pericolo mortale che corre Rita, le taglia i capelli e la fa bionda, poi la invita a dormire con lei: la passione divampa in un attimo. “Tu l’hai mai fatto prima?”. “Non lo so”. Lo spaccato di puro erotismo sconfina presto nell’allucinazione e nel nonsenso: la vera svolta del film, diretta ed interpretata con superbo senso del continuum, è qui da venire.
Consumato il rapporto, Rita comincia a delirare in piena notte.
“Silencio… No hay banda! No hay orchestra!”.
Occhi sgranati, faccia impietrita, il terrore nei lineamenti.
“Rita, va tutto bene”. “No, non va bene… Accompagnami in un posto”.
Il “posto” è, ça va sans dire, un malfamato night club di periferia chiamato “Silencio”, insegna al neon blu, palco scalcinato e sipario rosso sangue. Pochi spettatori annoiati per un prestigiatore spiritato che occupa l’intera scena. Con lui un’orchestra, decine di strumenti diversi: ma non c’è nessuna orchestra, non vi sono musicisti. “È tutto… un nastro”. Registrata è anche la performance strappalacrime di un’eccezionale cantante (Rebekah Del Rio) che, a metà del suo brano, collassa per terra, svelando il trucco. Betty viene attraversata da un tremito profondissimo, la stessa scossa epilettica del padre di famiglia di "Eraserhead" (1977) che la porta al pianto e materializza, nella sua borsetta, una strana scatola azzurra, perfettamente compatibile con una chiave della stessa tinta trovata in possesso di Rita il giorno dopo l’incidente d’auto. Arrivate a casa, le due donne si adoperano per aprire il contenitore, ma misteriosamente Betty sembra venir risucchiata nel nulla: a Rita non resta altro che girare la toppa. Il guscio si spalanca, il nero divora la cromia, cessa ogni rumore: la cassettina cade con un tonfo sordo sul tappeto della camera da letto. Delle amanti nessuna traccia. Una testa curiosa, che riconosciamo come quella della zia Ruth, si affaccia dallo stipite aperto.
“Ehi, bella ragazza, è ora di svegliarsi”
La parte più difficile – apparentemente così ardua da aver costretto Lynch in persona a svelare qualche indizio per la comprensione finale – tocca ora allo spettatore: quella di ricostruire i pezzi ed il senso dell’intera vicenda. Niente sembra essere davvero esistito, niente sembra poter continuare linearmente. Naomi Watts si risveglia in un letto che assomiglia moltissimo a quello di Diane Selwyn, nei panni di una bionda apatica, spettinata, rosa dal demone di una sconosciuta depressione, alle prese con insistenti vicine di casa e portaceneri che vanno e vengono. Rita è un ricordo, o meglio un fantasma, steso nudo sul sofà, sorridente vicino alla caffettiera, sbattuto fuori di casa, chiamato Camilla. E Adam Kesher, certo, anche lui esiste ancora, ma più che un cineasta messo alle corde dalla criminalità organizzata ha l’aria di un dongiovanni talentuoso e di successo. Uno sciupa femmine che si avvicina a Rita, Camilla, come chiamarla?, ogni giorno di più, sottraendola all’amore sconfinato di Betty?, Diane?. Il tempo si deforma, si dissolve in spirali, assume la consistenza di un telefono rosso, una lampada rossa, un mucchio di ansiose sigarette lasciate a metà. “Che sta succedendo? Non dobbiamo fermarci qui”: è una Watts in limousine, questa volta, a dirlo. “È una sorpresa”, ribatte pacato l’autista. Un regalo al cianuro.
Probabilmente no, non avrebbe dovuto fermarsi lì. Nemmeno “Mulholland Drive”, perso nei suoi tormenti, si ferma qui: va oltre ed incolla il prima col dopo ed il durante, la psicanalisi con l’allucinazione, eleggendo infine il rimorso a trionfatore assoluto ed invincibile della pellicola. La morte, suggerisce il finale, non ha nulla di morboso, nulla di affascinante: su un palco inondato di bagliori bluastri rimane solo il silencio.
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