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10/10

Mulholland Drive regia di David Lynch

Giallo
recensione di Marco Biasio

In una notte estiva, su Mulholland Drive si verifica un incidente d'auto. Muoiono tutti sul colpo tranne una donna (Laura Elena Harring), che nello schianto perde la memoria e l'identità. Scendendo le colline in direzione di Los Angeles, troverà rifugio nella villetta di Betty (Naomi Watts), un'aspirante attrice hollywoodiana appena giunta dal Canada. Tra le due donne nascerà un forte legame d'amicizia destinato ad evolversi, progressivamente, in amore passionale. Alla ricerca della vera identità della scampata vittima, Betty e Rita - funzionale pseudonimo sgraffignato alla più famosa Hayworth - si caleranno sempre di più in una realtà colpita dal sole battente, ma nell'intimo tetra ed oscura come gli animi di chi fa ricercare la donna ed interviene, apparentemente senza motivo, per imporre l'attrice protagonista nel nuovo film del regista Adam Kesher (Justin Theroux). Ma chi sono quei danzatori di jitterbug che si vedono ad inizio pellicola? Perché indugiare su un letto di raso? A chi appartiene un telefono rosso fiocamente illuminato? Cosa stiamo vedendo sullo schermo e cosa davvero esiste?

Puoi mentire agli altri, ma non a te stesso. Puoi costruire una vita sulle bugie, far finta di essere ciò che non sei, ammantarti di ambizioni ed utopie, ma non ti dovrai stupire se le tue fatiche, prima o poi, si sgretoleranno come un fragile castello di sabbia. Vincere una deprimente gara canadese di jitterbug e volare negli States per coronare il desiderio di recitare ad Hollywood è una classica happy-ending story da sogno americano: un sogno, per l’appunto, dove le Diane diventano Betty, le Betty Diane, sconosciute bionde dei sobborghi vengono chiamate Camilla e le Camilla, in un eterno ritorno che sfocia pur sempre nella referenzialità cinematografica, Rita. Rita come Rita Hayworth, diva della pellicola anni ’40 immortalata per sempre negli anni della sua fulgida bellezza, lungi dal decrepire o dal mostrare segni di cedimento. Un poster, appiccicato al muro di una stanza da bagno, è ciò che rimane dei tempi che furono. La felicità della realizzazione personale dovrebbe anch’essa godere di tale fortuna, una salamoia cartacea lontana dal tempo e dallo spazio. Ma se una vita vuole essere vissuta e contemplata in ogni suo aspetto, è impossibile riuscire a filtrare con un colino gioie e dolori: impossibile. Una realtà effettuale troppo amara per chi confonde fantasia e verità, wannabe e already been, io e doppelganger, una realtà da soffocare nelle spire di una coperta di raso rosso, in una scatolina misteriosa che solo una chiave blu può aprire, giù per i tornanti di Mulholland Drive.

È lei la ragazza

Qualcuno ci rimarrà forse male e rifiuterà di netto una tale “laicizzazione” di contenuto, ma “Mulholland Drive” altro non è che uno spaccato di visionarietà e profondità vertiginose sul più umano dei sentimenti, l’amore, e su quelle escrescenze carnali e psicologiche – simili ai tumori sottocutanei del “Videodrome” cronenberghiano – che sono la gelosia ed il conseguente tradimento. Il tradimento… che cosa orribile, eh? Mercifica le persone come nessuna audizione televisiva sarebbe in grado di fare. Dà un valore agli amici, un prezzo ai nemici, una stima agli estranei. Vola sulle ali della mancata armonia, s’inerpica sulle cime della comunicazione inespressa, implacabile ed inarrestabile. Soprattutto, libera una sconfinata scala di ritorsione: se, in disparità di trattamento, i conti non tornano, unica soluzione appare l’abbraccio al mai tramontato taglione, che rinfocola i peggiori istinti animali sopiti al nostro interno. Dal tradimento non solo non si torna indietro: non si torna uguali. Chiedetelo alla Gwyneth Paltrow incinta di “Sliding Doors”, agli illusionisti in “The Prestige” di Nolan, persino all’industriale milanese che per un punto perse la cappa sul tavolo verde di un amarissimo “Regalo di Natale” avatiano, giusto per citare tre film con niente in comune tra di loro ed ugualmente tanto da spartire. Poi, tornate ad osservare i ciottoli che decorano la piccola abitazione di Diane, o forse era Betty?, metteteli a fuoco, coglietene i colori aldilà delle lacrime, dei rimpianti e delle sgranature: quei ciottoli, nel contempo, rappresentano l’umanità dispersa e disgregata dei protagonisti di “Mulholland Drive”.

No hay banda! Non c’è… una banda!

In questo lavoro c’è un pezzo di ciascuno di noi. Ci sono le nostre storie e le nostre paure, i nostri sogni nei sogni ed i peggiori incubi, la libido ed il rimosso, le paranoie ossessive e le pulsioni inconsce. C’è tanto, in primis, dello stregone David Lynch, al tempo reduce dall’atipico e struggente road-movie “The Straight Story” (in italiano “Una storia vera”, 1999) e, prima ancora, da “Lost Highway” (“Strade Perdute”, 1997), un pozzo nero senza fondo in cui far inghiottire le perversioni di “Blue Velvet” e gli inesplicabili misteri della mente umana. Con le punte di diamante Patricia Arquette e Bill Pullman poteva sublimarsi, e concludersi, una delle parabole più esaltanti del weird-seeking doc d’autore del XX secolo. Invece, con l’avanzare dei nuovi tempi e lo scoccare del Nuovo Millennio, Lynch si reinventa e, come ogni maestro che si rispetti, rimescola le carte in tavola con una variazione sul tema. “Mulholland Drive” riparte da dove “Lost Highway” era terminato: dalla voce trafelata di Fred Madison che citofona a sé stesso, annunciando la morte di Dick Laurent, si ha uno shift temporale – ma non diatopico – alla sensualità ultraterrena di una favolosa ed enigmatica donna, interpretata da una magistrale Laura Elena Harring (un’Isabella Rossellini di quindici anni dopo, dallo charme palpabile), passeggera di un oscuro viaggio in limousine. La macchina, all’improvviso, si ferma. “Che sta succedendo? Non dobbiamo fermarci qui”, protesta la donna. La risposta si materializza nella fredda sorpresa di una canna di pistola, rivolta verso di lei e pronta a far fuoco, quand’ecco che un branco di freak sbandati – citazione a “Blow Up” di Antonioni? – sopraggiunge a velocità folle dall’altra parte della corsia, in contromano. Lo schianto è terrificante: tutti rimangono uccisi sul colpo, tranne una persona. Senza più nome, storia, memoria. Le danze possono iniziare.

Spero di non dover mai vedere quella faccia, quando sono al di fuori del mio sogno

Una ragnatela di contatti e connessioni. La storia della Harring si lega e si interseca ben presto con quella di Betty (una Naomi Watts ai suoi massimi), attricetta dalle maniere affettate e zuccherose in cerca di fortuna sul Sunset Boulevard, a cui una premurosa zia Ruth (Maya Bond) ha affidato temporaneamente la propria abitazione. È qui che la ragazza scopre la donna misteriosa, nuda sotto la doccia, ancora traumatizzata per l’avvenimento della sera precedente: un primo incontro dalla marcata componente sessuale che, come si vedrà, influenzerà tutto l’andamento dei personaggi. Alla ricerca di indizi utili per ricostruire l’identità perduta, Betty e Rita (nome di fantasia) entrano pian piano a far parte di un quadro molto più grande ed inquietante di loro. Il mancato omicidio e la scomparsa della vittima predestinata su Mulholland Drive catalizza le criptiche e laconiche conversazioni telefoniche di un gruppo di personaggi sconosciuti, privi di volto. La cupola di relazioni occulte apparentemente esistenti tra gli emissari sembra far capo ad un autoritario paraplegico (Michael J. Anderson), inchiodato in una stanza assurdamente spoglia, che comunica con l’esterno solo tramite un cicalino: è sempre lui che ordina di interferire, tramite uomini di fiducia (i mafiosi Castiglione, interpretati dai memorabili Angelo Badalamenti e Dan Hedaya), nella selezione dell’attrice protagonista per il nuovo film in lavorazione del regista Adam Kesher (Justin Theroux). La critica allo scintillio posticcio ed ingannevole di Hollywood, specchietto per le allodole che nasconde il marcio del quotidiano, più concretamente mossa in “INLAND EMPIRE”, viene qui abbozzata con sufficiente vis polemica: tutti si dichiarano amici di Kesher, ma nelle difficoltà egli viene abbandonato, fronteggiando una concatenazione paradossale di eventi infausti che culminano nel tradimento della moglie con il bodyguard, nelle minacce pressanti e crescenti a cui è costretto a cedere e, infine, in un casting farsa dove si susseguono i talenti in cerca della parte richiesta, inconsapevoli che il ruolo sarà assegnato giocoforza ad una sconosciuta Camilla Rhodes (Melissa George). Per una frazione di secondo accade l’impensabile: Betty, di ritorno da un trionfale provino per una squallida soap opera infarcita di mestieranti e stelle in declino, viene accompagnata sul set del film ed incrocia lo sguardo di Kesher. Tutto attorno a loro lo spazio si annulla: il collegamento che si instaura tra attrice e regista è un turbinio di attrazione e repulsione, disgusto ed antipatia assolutamente inspiegabile.

Qualcuno qui è nei guai… Chi sei tu?

Nell’ombra, un’imperscrutabile medium coperta da un velo bussa alla porta dell’appartamento di Betty. Rita è terrorizzata che qualcuno, in primis l’intransigente amministratrice Coco (Ann Miller), la scopra – forse non sa che un killer giovane e maldestro sta setacciando la città alla sua ricerca, provocando cortocircuiti e vincolandosi con le puttane di basso borgo –  ma la padrona di casa cerca di rassicurarla. Invano. E non occorre aspettare l’ammonimento profetico della stramba condomina per capire che qualcosa non va: non va nei colori, nelle musiche, nelle atmosfere, nello svolgimento dell’azione. Un germe malato insito nelle pieghe del dipanarsi del racconto. Betty e Rita si rendono conto che la loro non è definibile come semplice amicizia. Lo scoprono una notte, dopo aver seguito una possibile traccia a nome “Diane Selwyn” ed essere arrivati alla meta con un cadavere in bella vista, riverso su un letto. Betty intuisce il pericolo mortale che corre Rita, le taglia i capelli e la fa bionda, poi la invita a dormire con lei: la passione divampa in un attimo. “Tu l’hai mai fatto prima?”. “Non lo so”. Lo spaccato di puro erotismo sconfina presto nell’allucinazione e nel nonsenso: la vera svolta del film, diretta ed interpretata con superbo senso del continuum, è qui da venire.

Consumato il rapporto, Rita comincia a delirare in piena notte.

Silencio… No hay banda! No hay orchestra!”.

Occhi sgranati, faccia impietrita, il terrore nei lineamenti.

Rita, va tutto bene”. “No, non va bene… Accompagnami in un posto”.

Il “posto” è, ça va sans dire, un malfamato night club di periferia chiamato “Silencio”, insegna al neon blu, palco scalcinato e sipario rosso sangue. Pochi spettatori annoiati per un prestigiatore spiritato che occupa l’intera scena. Con lui un’orchestra, decine di strumenti diversi: ma non c’è nessuna orchestra, non vi sono musicisti. “È tutto… un nastro”. Registrata è anche la performance strappalacrime di un’eccezionale cantante (Rebekah Del Rio) che, a metà del suo brano, collassa per terra, svelando il trucco. Betty viene attraversata da un tremito profondissimo, la stessa scossa epilettica del padre di famiglia di "Eraserhead" (1977) che la porta al pianto e materializza, nella sua borsetta, una strana scatola azzurra, perfettamente compatibile con una chiave della stessa tinta trovata in possesso di Rita il giorno dopo l’incidente d’auto. Arrivate a casa, le due donne si adoperano per aprire il contenitore, ma misteriosamente Betty sembra venir risucchiata nel nulla: a Rita non resta altro che girare la toppa. Il guscio si spalanca, il nero divora la cromia, cessa ogni rumore: la cassettina cade con un tonfo sordo sul tappeto della camera da letto. Delle amanti nessuna traccia. Una testa curiosa, che riconosciamo come quella della zia Ruth, si affaccia dallo stipite aperto.

Ehi, bella ragazza, è ora di svegliarsi

La parte più difficile – apparentemente così ardua da aver costretto Lynch in persona a svelare qualche indizio per la comprensione finale –  tocca ora allo spettatore: quella di ricostruire i pezzi ed il senso dell’intera vicenda. Niente sembra essere davvero esistito, niente sembra poter continuare linearmente. Naomi Watts si risveglia in un letto che assomiglia moltissimo a quello di Diane Selwyn, nei panni di una bionda apatica, spettinata, rosa dal demone di una sconosciuta depressione, alle prese con insistenti vicine di casa e portaceneri che vanno e vengono. Rita è un ricordo, o meglio un fantasma, steso nudo sul sofà, sorridente vicino alla caffettiera, sbattuto fuori di casa, chiamato Camilla. E Adam Kesher, certo, anche lui esiste ancora, ma più che un cineasta messo alle corde dalla criminalità organizzata ha l’aria di un dongiovanni talentuoso e di successo. Uno sciupa femmine che si avvicina a Rita, Camilla, come chiamarla?, ogni giorno di più, sottraendola all’amore sconfinato di Betty?, Diane?. Il tempo si deforma, si dissolve in spirali, assume la consistenza di un telefono rosso, una lampada rossa, un mucchio di ansiose sigarette lasciate a metà. “Che sta succedendo? Non dobbiamo fermarci qui”: è una Watts in limousine, questa volta, a dirlo. “È una sorpresa”, ribatte pacato l’autista. Un regalo al cianuro.

Probabilmente no, non avrebbe dovuto fermarsi lì. Nemmeno “Mulholland Drive”, perso nei suoi tormenti, si ferma qui: va oltre ed incolla il prima col dopo ed il durante, la psicanalisi con l’allucinazione, eleggendo infine il rimorso a trionfatore assoluto ed invincibile della pellicola. La morte, suggerisce il finale, non ha nulla di morboso, nulla di affascinante: su un palco inondato di bagliori bluastri rimane solo il silencio.

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Voto degli utenti: 8,9/10 in media su 15 voti.

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Sydney (ha votato 10 questo film) alle 2:40 del 13 dicembre 2011 ha scritto:

Un dramma esistenziale corrosivo angoscioso paranoico e autodistruttivo. Le sequenze finali sono tra le più schizzofreniche e allucinanti mai viste in un film. Interpretazioni tutte da Oscar, atmosfere generali indefinibili, suspance e coinvolgimento emotivo alle stelle, moltissime scene da antologia (quella al Winkie's, quella di sesso, quella al teatro e il già citato finale su tutte), dialoghi e battute che lasciano il segno. Il capolavoro assoluto di Lynch, il film perfetto, uno dei miei preferiti di sempre. Memorabile in tutto, da ogni punto di vista uno dei capolavori di sempre, sicuramente per quanto riguarda il cinema psicologico e visionario. Ma anche in generale.

alexmn (ha votato 10 questo film) alle 15:07 del 13 dicembre 2011 ha scritto:

direi che non c'è altro da aggiungere a una recensione davvero ben fatta e completa. c'è tutto un film così immenso se la merita questa gran dichiarazione d'amore.

Marco_Biasio, autore, alle 13:39 del 14 dicembre 2011 ha scritto:

Grazie dei commenti e dei complimenti, apprezzo molto. Per Sydney: secondo me il capolavoro inarrivabile di Lynch è Lost Highway, di cui questo Mulholland Drive ne rappresenta una versione appena più onirica e potabile. Eraserhead e INLAND EMPIRE fuori categoria.

Sydney (ha votato 10 questo film) alle 16:41 del 14 dicembre 2011 ha scritto:

Marco: Strade Perdute è un film alla quale sono molto legato e che considero un'altro capolavoro, ma in confronto a Mulholland Drive per me perde nettamente il confronto: il primo è più violento, più intricato ma allo stesso tempo più accattivante, più coinvolgente anche se si vuole (si parla di 2 film entrambi molto appassionanti), sfiora anche il kitsch in alcuni momenti (non lo dico in senso negativo sia chiaro); mentre quest'ultimo è più profondo e psicologicamente più lacerante, drammatico, esistenziale. Insomma per me rimane più dentro di Lost Highway, che colpisce e rimane impresso sicuramente ma è molto meno toccante, non tocca le stesse corde. Eraserhead e INLAND EMPIRE sono giustamente a parte, anche se ammetto che il secondo non mi ha entusiasmato: l'ho trovato fin troppo eccessivo e non sense, quasi fine a se stesso. Ma l'ho visto una sola volta e dovrei rivederlo...

Marco_Biasio, autore, alle 16:08 del 15 dicembre 2011 ha scritto:

RE:

Dimenticavo di risponderti, Sydney. Io preferisco Lost Highway proprio per gli stessi motivi per cui tu lo poni dietro a Mulholland: per la sua capacità di ibridarsi con più generi, di sfiorare volontariamente il kitsch, di tingersi di nero, di contrapporre fisicità e dinamismo ad incubo ed allucinazione oltre, ovviamente, alla struttura centrale che si ripiega di continuo e sembra non avere mai una conclusione logica e definita (il famoso nastro di Mobius, per capirci...). Lost Highway è un film certamente più difficile di Mulholland che, a parte la classica frattura cronologica facilmente ricomponibile e l'alambiccata scena del teatro Silencio, possiede tutto sommato una linearità "nascosta" che verrà completamente spazzata via da INLAND EMPIRE. Poi, sul discorso dell'emotività sono d'accordissimo: anche a me, su questo piano, è rimasto più dentro Mulholland Drive. Che infatti considero un capolavoro, forte di una regia incrollabile, di un lavoro attoriale pressoché perfetto e di una storia solidissima.

maupes alle 21:37 del 14 dicembre 2011 ha scritto:

Marco, confesso che io questo film non l'ho ancora visto ma dopo aver letto la tua appassionata recensione cercherò di recuperarlo il più presto possibile. Sai che quando ho visto 'INLAND EMPIRE' ne ho scritto definendomi affascinato e perplesso allo stesso tempo davanti ad un'opera così inconsueta. Non so quindi che impressioni potrà farmi ora questa ma la tua esaustiva ed approfondita recensione sembra in simbiosi con lo stile del tuo amatissimo Lynch, sicuramente un autore di grandissimo livello ma non facile e per tutti...

Marco_Biasio, autore, alle 16:02 del 15 dicembre 2011 ha scritto:

RE:

Ti ringrazio dei tuoi complimenti, Maurizio, molto graditi. Sì, ho volutamente lasciato la parte narrativa della recensione un po' "ambigua", sia per non svelare troppo del film - anche se qualcosa, obiettivamente, andava detto - sia per non cadere nel difetto principale di chi analizza i lavori di Lynch, ovvero scorgervi una chiave di lettura personale ed imporla per tutto lo scritto al lettore. Film del genere (magari non questo, che io trovo abbastanza lineare, ma cose come Eraserhead o INLAND EMPIRE sicuramente sì) sono esperienze visive che vogliono dire tutto e niente, deprivate di ogni significato e che, nello stesso tempo, nel significato (e nei significanti) ci sguazzano di continuo. In questi casi è importante, per me, esercitare il proprio senso critico di appassionati e scatenare la fantasia di spettatori, immaginando ed intuendo collegamenti all'interno della trama senza farsi troppo influenzare da analisi esterne. Un po' capisco quelli che sono presi dalla smania di "spiegare" tutto sempre e comunque: certe recensioni dei film di Lynch sono bignami che sezionano minuto per minuto ed attribuiscono, con una lettura pressoché didascalica, una spiegazione logica ad ogni più piccolo dettaglio. E' un comportamento che io definisco da "ansia catalogativa", uno sforzo cognitivo che si compie di proposito per dimostrare di essere entrati alla perfezione nei meccanismi interni della pellicola ed averli compresi meglio di chiunque altro. Una sorta di narcisismo indiretto, in altre parole, in cui anch'io a volte cado, perché chi di noi non è almeno un po' egocentrico? Ma voler snaturare a tutti i costi l'essenza dei film di Lynch, riducendoli a grumi di simboli con relative corrispondenze cognitive, come una sorta di tabella di traduzione da tenere sott'occhio per tutta la durata del lavoro, annulla quella che è la loro vera bellezza: agire completamente sulla psiche dello spettatore, manipolandola e bombardandola con input inconsci e tranelli di illogica cerebralità, fino a farlo ibridare nella fibra stessa del film. A livello di arido significato, e disgiunti dalle tecniche di ripresa, dall'uso del colore, dalle musiche, dalla fotografia, i film di Lynch diventano quasi pellicole "normali", se mi passi il termine.

swansong (ha votato 4 questo film) alle 14:52 del 19 dicembre 2011 ha scritto:

Senz'altro sbaglio io, però..

Film e regista per me sopravvalutati (e non solo con riguardo a questo film). In effetti, pur sforzandomi,non sono mai riuscito ad amare questo modo di fare cinema. Questo continuo giocare con l'immaginario dello spettatore, l'ambiguità, la volgia di stupire a tutti i costi con trame al limite del'intelleggibile, la continua sovrapposizione di storie, di scansioni spazio-temporali, non mi danno nessuna tensione emotiva, nessuna scossa, non mi catturano e li considero solo meri e poco riusciti esercizi di stile. Provo a spiegarmi meglio. Non che queste caratteristiche, in assoluto, siano dei difetti, anzi. Però per me lo diventano in film come questi. Posto che ognuno di noi l'esperienza cinemetografica la vive in modo del tutto soggettivo (come del resto qualsiasi altra esperienza artistica), per me il cinema è, prima di tutto, svago. Il regista deve "condurmi" altrove, ma deve anche darmi le chiavi di lettura giuste per capire da che parte vuol parare, altrimenti la tua opera è incompiuta, dal mio punto di vista. Va bene giocare col mistero e l'ambiguità (e, per esempio, la prima parte di Lost Highway è magistrale in questo senso), ma poi devi chiudere il cerchio..e non lasciare tutto in mano alle libere interpretazioni degli spettatori, altrimenti si perdono sia magia che mistero, perchè varrebbe tutto ed il contrario di tutto. E questo non è corretto, perchè non basta saper girare, non basta saper far recitare, non basta saper scegliere le musiche, bisogna saper anche arrivare al dunque, e Lynch, per scelta o per incapacità, questo spesso non lo fa, ed io mi sento leggermente preso per il culo..e a volte, lo dico con una certa intima e paradossale convinzione, mi pare quasi che sia proprio ciò che vuole, in effetti! Prendere per i fondelli tutti quelli che guardano i suoi film capolavoro e che lo recensiscono, come hai fatto tu splendidamente Marco. Per poi magari leggersi tutte le loro dotte disquisizioni e quindi farsi delle fragorose risate alle loro spalle..Alla fine della fiera, l'unico suo vero film degno di nota, comunque quello che preferisco, è stato e ad oggi rimane, senza dubbio, Elephant Man..

Marco_Biasio, autore, alle 21:35 del 19 dicembre 2011 ha scritto:

RE: Senz'altro sbaglio io, però..

Che infatti è quello, assieme a The Straight Story, con la trama più compiuta e lineare. Non c'è nessuno sbaglio nel tuo commento, swan, semplicemente (e lo hai spiegato molto bene) questo modo di fare cinema non è nelle tue corde. Che Lynch giochi appositamente a non chiudere i suoi film, per poi divertirsi alle spalle delle dotte elucubrazioni da parte della critica, è un'ipotesi che è saltata fuori con più insistenza in occasione di INLAND EMPIRE. Io non la vedo così ma, ancora una volta, sono opinioni!

loson79 (ha votato 10 questo film) alle 12:12 del 21 dicembre 2011 ha scritto:

(Uno dei) film della vita.

Alessandra Graziosi (ha votato 8 questo film) alle 17:31 del 5 marzo 2012 ha scritto:

Perdonami, ma secondo me il dibattito sul tradimento è un po' out topic in questa vicenda e anche in questa recensione. Più che il tradimento l'oggetto è l'inadeguatezza dei personaggi che comporta gelosia e terrore del tradimento verso l'oggetto amato, cosa che fa sfumare i bei sogni compensatori, che vengono prima o dopo la vicenda "reale", riallanciandoli ad essa. In poche parole sono segno dello stesso sconfiggimento dei personaggi all'interno dei loro stessi sogni dopo un iniziale decollo.

Marco_Biasio, autore, alle 20:48 del 5 marzo 2012 ha scritto:

RE:

Sono diverse chiavi di lettura. Nella recensione ho lasciato spazio anche alla tua, comunque, quando scrivo della verosimile congruenza tra le psicologie frantumate dei personaggi ed i sassi sfuocati in casa di Betty/Diane.

Alessandra Graziosi (ha votato 8 questo film) alle 21:34 del 5 marzo 2012 ha scritto:

Sì, sì, ho visto che le hai messe le interpretazioni! Tranquillo, dicevo solo che lì in mezzo secondo me quel discorso sul tradimento era ancora più carne al fuoco su un argomento già molto difficile, dato che è un argomento che si tocca trasversalmente... E' un'ottima recensione, era solo un consiglio per dire che stonava un pochetto, dato che David Lynch non mi sa molto di bacchettone attaccato alla questione tradimento non tradimento... tutto qui!

Marco_Biasio, autore, alle 21:56 del 5 marzo 2012 ha scritto:

RE:

E figurati, accetto sempre molto volentieri le osservazioni di chi legge! Grazie a te della pazienza.

Banjar (ha votato 5 questo film) alle 13:33 del 14 ottobre 2014 ha scritto:

Uno dei più esilaranti film comici che mi sia capitato di vedere. Personaggi grotteschi come il Cowboy, che mi ha fatto scoppiare in una risata appena lo ho visto, l'idiota con gli incubi da bambino, che si fa venire un coccolone ocn un pupazzo da asilo infantile, il killer maldestro che centra la grassona nel sedere, la cantante in playback che crolla, e la voce continua ...

Sono una risata dietro l'altra.

Un genio della ocmicità. surreale, se vogliamo, ma un film assolutamente esilarante.

alexmn (ha votato 10 questo film) alle 12:53 del 16 ottobre 2014 ha scritto:

esilarante e surreale come il tuo commento

Banjar (ha votato 5 questo film) alle 14:30 del 16 ottobre 2014 ha scritto:

Grazie per l'apprezzamento.

Perchè chi mi ha consigliato il film, dopo aver sentito che lo considero comico, ha detto che sono un idiota che non capisce niente.

Non sono certo un intenditore di cinema, non di questo livello, non conoscevo assolutamente David Lynch, avevo visto solo Dune, al cinema, molto tempo fa, e non avevo preso nota del nome del regista. E Twin Peaks alla TV, ma avevo visto un solo episodio, e forse nemmeno lo avevo finito, ci era parso noiosissimo, a me ed alla allora mia moglie, ma ero piuttosto giovane, allora.

Forse non capisco niente, anzi certamente non capisco niente, però mi sembra di aver letto che David Lynch lasci deliberatamente aperta all'interpretazione dello spettatore la comprensione, o non comprensione, dei suoi film.

In questo senso, credo che la mia interpretazione e percezione valgano quanto qualsiasi altra.

Seriamente, io vedo tutta la storia come il racconto, in chiave comica, di un qualche sogno, più o meno brutto, fatto dal regista. Questa è la mia onesta e sincera percezione. Io, altro non ci vedo. Nessun significato profondo, nessun messaggio nascosto, solo un sogno messo in cinema. Un vero sogno, fatto da qualcuno.

Ma proverò a riguardarlo, si sa mai. E anche a guardare altri film di Lynch, si sa mai. Magari capisco qualcosa.

alexmn (ha votato 10 questo film) alle 14:42 del 16 ottobre 2014 ha scritto:

dici bene. la bellezza dei film di lynch è proprio che lasciano spazio-e-libertà all'interpretazione. alcuni di più, tipo questo o inland empire, altri meno, come the straight story. di sicuro, non sono opere che lasciano indefferenti.